domenica 31 gennaio 2010

Tremonti l'anticostituzionale

Però il Tremonti. L'uomo che con orgoglio rivendica il fatto di non essere un economista svela il suo vero volto e si dichiara esperto di diritto costituzionale.
Magari avrà anche ragione tecnicamente sulla questione, però non possiamo non chiedergli conto di quella strana asimmetria nei suoi ragionamenti che lo vedono mettere all'indice una norma che pone un tetto agli stipendi dei manager perché anticostituzionale e, nello stesso tempo, voltare la testa da un'altra parte quando il suo capo rivendica il "diritto" di essere trattato non come un cittadino qualsiasi di fronte alla legge ma come uno al di sopra della legge.
Per ricapitolare: per quelli come il Tremonti se metti un tetto a stipendi stratosferici sei un illiberale e contro il libero mercato e se, però, vuoi che Berlusca i suoi cazzi con la giustizia se li sbrighi come tutti gli altri poveri tapini allora no!!! In questo caso valgono le buone norme medievali, quelle che garantivano l'impunità al signorotto.
In pratica roba da casta.

giovedì 28 gennaio 2010

Nuove frontiere dello sfruttamento: il lavoro a minuto

Qualche giorno fa con un articoletto di spalla il vice direttore di Repubblica ci raccontava che negli USA una fetta consistente di lavoratori ha sperimentato la gioia di una nuova tipologia di contratti: quelli a minuto lavorato.
In pratica le aziende ti pagano per l'effettivo tempo lavorato e nel compenso non è prevista nessuna forma d'indennità in caso di malattia, né alcuna copertura assicurativa.

Sembra che sia la nuova frontiera della flessibilità.
Il buon Giannini sollecitava i politici a prendere atto di questo stato di cose (con un sottinteso che lasciava intendere che quelli si stanno attrezzando per essere più competitivi) perché è ora di riformare il welfare.

Nella logica dei "Giannini" riformare il welfare significa re-distribuire il poco tra i tanti nuovi poveri che ci sono e che ci saranno , prevedere quindi ammortizzatori sociali per i periodi di disoccupazione per quanti saranno interessati da queste nuove forme di precariato togliendo a pensioni, sanità e quant'altro e parte dell'assistenza.

Sempre nella logica del Giannini il problema non è la nuova categoria dello sfruttamento (da combattere) quanto quella di attrezzare il sistema paese in modo tale che durante i periodi di non impiego un minimo di "salario sociale" permetta ai tanti di tirare avanti.

Con la logica del "questi sono i tempi, queste le condizioni e non abbiamo scelta, nel 1946, la Repubblica iniziò quella che oggi possiamo definire come la sua tratta degli schiavi per potersi pagare un po' di carbone.

Per fare questo furono conclusi vari accordi bilaterali tra Italia e Belgio, come il protocollo del 23 giugno 1946 ed il protocollo dell'11 dicembre 1957. Gli immigrati italiani che si diressero in misura considerevole verso le miniere di carbone del Belgio furono circa 24.000 nel 1946, oltre 46.000 nel 1948. A parte un periodo di flessione, corrispondente agli anni '49-'50, nel 1961 gli italiani rappresentarono il 44,2 per cento della popolazione straniera in Belgio, raggiungendo le 200.000 unità.

Quei lavoratori costavano la metà di un minatore belga, non si potevano rifiutare di lavorare una volta firmato il contratto di lavoro pena una detenzione di 5 anni di galera, venivano smistati a centinaia nella stazione di Milano,viaggiavano per due giorni in treni blindati senza conoscere la loro destinazione . A salari da fame garantirono quel carbone che permise all'Italia di far ripartire le sue fabbriche ed ai padroni di arricchirsi ancora di più.

Qui una breve cronaca (fonte:www.zadig.it/news2002/med/new-0218-1.htm):

      “Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall'Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall'Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d'uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.

Il viaggio da Milano durava in pratica due giorni. Si partiva da Milano il lunedì mattina, si viaggiava tutto il lunedì e si arrivava in Belgio nel pomeriggio del martedì. Circa mille persone viaggiavano su ogni treno. Per quasi tutti era il primo viaggio di una certa importanza, o il primo in assoluto, un viaggio decisamente poco confortevole, specialmente quando si attraversava la Svizzera. Al passaggio per la Svizzera, infatti, per un certo tempo i vagoni venivano chiusi e il treno proseguiva senza nessuna fermata fino a Basilea, per non rischiare di perdere qualche passeggero lungo il tragitto. Le ragioni erano comprensibili: considerato che la Svizzera era una meta ben più ambita del Belgio, anche perché più vicina, molti sognavano di scendere e di fermarsi lì. Dopo Basilea i vagoni potevano di nuovo essere aperti, poiché nessuno voleva scendere in Francia. Le visite mediche d'idoneità al lavoro venivano sbrigativamente svolte durante il viaggio. Per il resto, sui treni non c'era praticamente alcun tipo d'assistenza.

Alla stazione centrale di Bruxelles, lunghi convogli ferroviari scaricavano gli uomini, stanchi, con i loro abiti semplici e con pochi effetti personali al seguito, molti dei quali non fecero mai ritorno al proprio paese.

A Bruxelles cominciava lo smistamento verso le differenti miniere, tenendo conto, nei limiti del possibile, delle affinità familiari. Gli interpreti e i delegati delle miniere regolavano alcune formalità essenziali e qualche problema personale.

In autobus o ancora in treno, gli uomini venivano poi accompagnati nei loro “alloggi”: le famose cantines, baracche insomma, o addirittura nei famigerati hangar, gelidi d'inverno e cocenti d'estate, veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra.

Né animali, né stranieri...

La mancanza di “alloggi convenienti”, previsti dall'accordo italo-belga, impediva alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia. Trovare un alloggio in affitto era infatti quasi impossibile all'epoca. Spesso, sulle porte delle case da affittare i proprietari scrivevano a chiare lettere “ni animaux, ni étranger”: né animali, né stranieri.

È dunque facile immaginare che l'integrazione dei lavoratori italiani in Belgio non era, in quegli anni, facile. Anche nelle miniere, dove peraltro le condizioni di lavoro erano particolarmente dure e insalubri, i rapporti con i minatori belgi non erano facili, poiché gli italiani estraevano in media più carbone e si pensava che fossero, per conseguenza, pagati meglio. La solidarietà tra paesani rendeva il peso del lavoro e delle condizioni di vita un po’ più sopportabile. I minatori italiani provenienti dal Veneto, dalla Sicilia, dall'Abruzzo, e così via, avevano infatti tendenza a riunirsi tra di loro e a parlare in dialetto, secondo la regione e il paese di provenienza.

In questo contesto, un formidabile fattore d'integrazione fu l'associazionismo sindacale, e in particolare il riconoscimento del diritto di voto agli immigrati stranieri per l'elezione delle cariche sociali, che venne introdotto per la prima volta in Belgio nel novembre del 1949, anche se con molte restrizioni. Benché inizialmente il diritto di voto fosse soltanto passivo, e non consentiva quindi di essere eletti, questa prima forma di partecipazione alla vita interna all'azienda, fino a quel momento sconosciuta alla quasi totalità dei nostri lavoratori, rappresentò un formidabile esercizio di democrazia e un'occasione importante per iniziare a partecipare alla vita politica e sociale belga. "


Con la testa a quegli avvenimenti ed a quella storia osservo che il percorso che in tanti hanno fatto non è servito a nulla.

Ci ripropongono condizioni che invece che farci fare passi in avanti ci riportano indietro nel tempo. La differenza sostanziale con quei periodi è nella qualità dei rapporti umani da ricostruire. Lì allora c'era qualcuno che si batteva per integrarti e farti conquistare diritti, qui da noi ora c'è solo una sporca guerra che faranno fare a noi. Sarebbe il caso di rivolgere quei metaforici fucili in altra direzione piuttosto che perpetuare e condividere condizioni di sfruttamento che ci abbrutiscono e basta ma, sembra, che questa cosa sia altamente "sovversiva", spregiudicata e da condannare.


E allora continuiamo a scannarci. Con i neri a Rosarno, contro quelli che bloccano i cancelli a Pomigliano, contro quei lavativi che vorrebbero pisciare più di una volta in 5 ore come hanno stabilito nel Carrefour qui a Torino, contro bidelli e professori. Però quando lo farete e soddisfatti tornerete a casa per aver ristabilito un po' di ordine passate dal centro e provate a guardare in alto, da qualche parte dietro una finestra vedrete gente affabile e cordiale in compagnia di signore gaudenti che fanno festa. Non lo sapete ma quello che festeggiano come coglione dell'anno ridendo a crepapelle siete proprio voi.


domenica 24 gennaio 2010

Confusi o coglioni?

Ricapitoliamo: in Piemonte la mitica federazione si è presa un calcio nel culo a favore dell'UDC. In Puglia scodinzolano dietro vendola dopo che Vendola gli ha sfasciato il partito,nel Lazio vaneggiano di alleanze con la Bonino.Direi gente con le idee chiare.
Scommetto che racconteranno che la situazione è questa e triccheeballacche. Più o meno le stesse cose che raccontarono quando reggevano il moccolo a Prodi e ci spiegavano perché non stavano in piazza (echecazzo siamo ministri e sottosegretari e poi Rutelli s'incazza).
Nel frattempo ci siamo persi un po' di mesi per provare a costruire un'opposizione radicale in questo paese. Una di quelle opposizioni che non fa sconti e che tratta le questioni con un minimo di coerenza in funzione di un'idea di società e di politica diversa.
E invece no. Sono lì che si contorcono. Vuoi fare del bene a questo paese? Non andare a votare.

sabato 23 gennaio 2010

La fuga in avanti (perché gli altri fuggono senza voltarsi indietro)

di Manolo Morlacchi

Morlacchi-LaFugaInAvanti.jpgManolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, ed. Agenzia X, pp. 216, € 15,00.

La fuga in avanti è uscito nelle librerie da qualche settimana e ci sono alcune osservazioni, provocazioni, domande, che appaiono in modo ricorrente nelle presentazioni a cui partecipo e nelle recensioni che ho potuto sin qui leggere, in particolare, la segnalazione di Wu Ming 1 su Nandropausa. Quindi mi sono convinto della necessità di approfondire alcune questioni intorno al mio libro.

Lungo le pagine de La fuga in avanti descrivo a più riprese con grande enfasi e nostalgia il clima in cui ho trascorso gli anni della mia infanzia e adolescenza, suppergiù dal 1975 al 1985. Questa descrizione può sollevare qualche fastidio o perplessità tra chi ha vissuto in prima fila quella stagione politica e ne ha pagato duramente le conseguenze. Ma la mia lettura è volutamente provocatoria. E’ il tentativo di porre in relazione tra loro i profili umani e sociali di chi decise di andare allo scontro con lo Stato, rispetto ai profili umani e sociali con cui siamo abituati a convivere oggi. E’ il tentativo di dimostrare come, in ultimo, quei nomi e cognomi siano gli stessi di allora; che non si tratta di biografie personali, ma di vicende collettive, di opportunità politiche e rivoluzionarie, di questioni molto materiali. E’ il tentativo di intervenire sulla vulgata comune, secondo la quale gli anni ’70 sono stati un medioevo contemporaneo, plumbeo e segnato dall’ultraideologia.
I miei ricordi mi descrivono una realtà diversa. Nel mio quartiere, il Giambellino, negli anni ’70, i proletari erano dalla parte delle Brigate Rosse. Tante sono le testimonianze a riguardo. Tutti sapevano chi fossero i clandestini; capitava che gli stessi clandestini te li ritrovavi a cenare o a bere nelle trattorie e nei luoghi di ritrovo del Giambellino, alla Bersagliera o alla Cooperativa, senza che nessuno avesse qualcosa da ridire (e non si trattava di paura). In Piazza Tirana le BR tennero alcuni comizi pubblici senza che la polizia intervenisse. Sui tetti delle case popolari spesso comparivano bandiere rosse con la stella a cinque punte. Gli stessi militanti del PCI sapevano chi si nascondeva dietro le Brigate Rosse, ma nella peggiore delle ipotesi ci convivevano. Mio padre era così legato alla sua storia nel partito che, negli ultimi anni della sua vita, si iscrisse a Rifondazione Comunista e festeggiò la prima vittoria di Prodi su Berlusconi!
Chi scrive non intende certo separare la storia delle Brigate Rosse avventuriere e romantiche, rispetto alla storia delle Brigate Rosse sanguinarie e militariste. Esiste una sola storia della lotta armata in Italia e mio padre ne fece parte appieno dal 1970 a quando uscì di prigione nel 1986. Rimase impermeabile a ogni tentativo di alleggerire la propria condizione di prigioniero, senza cercare le scorciatoie della dissociazione o l’infamia del pentitismo. Le sue critiche e le sue perplessità sull’Organizzazione le riservò sempre ai compagni con cui condivideva la propria irriducibile avversione al sistema borghese.
Ciò che mosse quei personaggi del Giambellino e i tanti che li seguirono, era una spinta molto materiale che proveniva da lontano e non rappresentava il frutto di una elaborazione da salotto universitario. In loro si riassumevano tante lotte: la Resistenza al nazifascismo, la fame patita durante e dopo la guerra, le lotte operaie nelle fabbriche degli anni ’50, la rottura con il PCI e il sostegno alla Cina, al Vietnam, a Cuba, alle lotte anticolonialiste africane. Infine, il 1968 e la dialettica difficile con gli studenti, “la futura classe dirigente del Paese che intendeva guidare i cortei”.
Fu questa loro coerenza pratica, prima ancora che intellettuale/ideologica, a rendere particolari quei compagni ed esaltante la mia infanzia. Sapevi chi avevi di fronte. Sapevi che quei personaggi li trovavi a giocare a dadi con la malavita alla stazione ferroviaria di San Cristoforo in piazza Tirana, ma quando c’era bisogno di altro su di loro potevi contare senza dubbi.
Queste sensazioni ho cercato di trasferirle nelle pagine del libro, tentando di evitare ogni reticenza. La fuga in avanti è un libro partigiano che intende porre nel solco delle lotte rivoluzionarie del secolo scorso l’esperienza della lotta armata in Italia. Il mio libro non ha alcun intento pacificatorio. E’ il tentativo di capire gli errori e le conquiste di quell’esperienza a uso e consumo di chi continua a credere che la società del profitto sia un abominio contro cui bisogna combattere.

Un altro aspetto che emerge spesso nei dibattiti intorno agli anni ’70, riguarda la questione della legislazione speciale e, più in generale, delle forme che la repressione ha assunto per sconfiggere la lotta armata: reintroduzione della tortura fisica e psicologica per i prigionieri e per le loro famiglie, uso sommerso della pena di morte ecc.
E’ costume di vasta parte della sinistra istituzionale o meno, affrontare quei fatti come se si fosse trattato dell’esito di una follia collettiva cresciuta nell’alveo delle istituzioni democratiche.
Come se quelle scelte repressive fossero un mostro sfuggito di mano a qualcuno e non il prodotto concreto dei metodi attraverso cui gli apparati dello Stato, di qualunque Stato, intervengono quando il dissenso diventa pericoloso. Come se, rispetto a quegli anni, ci fossero oggi possibilità repressive meno malsane rispetto ad allora. Basterebbe leggere lo splendido libro di Emilio Quadrelli Evasione e rivolte per rendersi conto di quanto questo tipo di lettura, nella migliore delle ipotesi, sia ingenuo.
Chi combatte l’imperialismo con le armi in pugno, ieri come oggi, conosce gli strumenti di cui la borghesia si è dotata per difendere i propri interessi. Sono strumenti perfezionati sulla pelle di coloro che hanno combattuto il capitalismo nei cicli rivoluzionari degli ultimi 150 anni. Elaborazioni teoriche uscite dalle centrali del terrore statunitensi, israeliane, francesi, inglesi, italiane e che hanno trovato applicazione pratica negli scenari sudamericani, medio-orientali, africani, indocinesi, nella lotta contro le organizzazioni combattenti europee e di tutto il mondo. Oggi questi vademecum alla repressione trovano la loro consacrazione planetaria e la giusta versatilità per rispondere a ogni esigenza qualitativa e quantitativa. Abbiamo così il caso dell’Irak dove dei contractor/patrioti italiani partono per difendere gli interessi del capitale violentando donne e bambini, e abbiamo invece il caso di Genova 2001 dove la nostra polizia si limita a dare degli avvertimenti a chi pensava che la borghesia di un Paese democratico utilizzasse strumenti diversi rispetto a quelli che riserva alle periferie del mondo.
Cercare di quadrare il cerchio su questi temi intorno a un tavolo e nel consesso delle istituzioni è, per usare un’espressione gentile, velleitario. A meno che non si pensi che esista una dicotomia tra le istituzioni e gli interessi del capitale.

Al mio libro è stato anche rimproverato di non rispettare il dolore delle vittime di quegli anni. Questo non è affatto vero. Rispetto quel dolore, evitando di parlarne. E non è un semplice escamotage, ma la profonda convinzione di non poter in alcun modo entrare in un dolore che non mi appartiene. Penso che il rispetto sia una categoria che talvolta viene evocata dai vincitori quando gli sconfitti non chiedono “scusa”. Ognuno piange i propri morti come meglio gli aggrada. Io ho grande rispetto per il dolore umano provocato dalla violenza, sia essa rivoluzionaria o repressiva. Molto più importante è dire che questo rispetto l’avevano mio padre, mia madre e i tanti loro compagni. Ho citato volutamente nelle pagine de La fuga in avanti un passo di Senza tregua quando il comandante Visone si trova di fronte ai morti di Piazzale Loreto e osserva i volti soddisfatti e sorridenti dei fascisti: “Mi resi conto in quel momento di quale fosse la distanza che mi separava dai miei nemici. Io non avrei mai potuto ridere di fronte al cadavere del mio nemico. Troppo grande era il peso che mi portavo sulle spalle per quelle morti”.

Ho voluto raccontare una storia delle Brigate Rosse senza affossarmi nelle pieghe della Storia Ufficiale. Non mi sono interessato alle diverse fasi e delle diverse anime della lotta armata: propaganda armata, ala militarista, ala movimentista, prima e seconda posizione, pg, pcc, ucc ecc. Non perché si tratti di questioni poco importanti, ma perché non servono a descrivere nel complesso la storia della più importante organizzazione armata italiana.
Così come non serve a nulla tentare di dipingerla (salvo che non si tratti di una rilettura interessata) raccontando i misfatti e le aberrazioni che si verificarono in particolare dalla fine degli anni ’70 ai primi anni ‘80. Gli strangolamenti in carcere di militanti che avevano fatto confessioni sotto tortura; gli omicidi per diffondere un volantino, ecc. ecc. La categoria della violenza, letta in termini assoluti, estrapolata ed estremizzata, descriverebbe da sé l’errore della scelta armata. Assume la forma di un artificio intellettuale per mettere tutti d’accordo. Ma dove stava la violenza in quegli anni in Italia? Era il prodotto di un gruppo di pazzi fuggiti da qualche manicomio, o era la risultante dello scontro sociale in atto? Se ponessimo in competizione la violenza rivoluzionaria con quella della repressione, ebbene vincerebbe con grande distacco quella provocata dalla stragi di Stato, dalla tortura legalizzata, dagli omicidi compiuti nelle piazze, nelle carceri, dai massacri perpetrati dall’imperialismo in giro per il mondo. Ma non serve a nulla questa operazione, a meno che, ripeto, non si tratti di un’operazione politica. Ma allora entriamo in un altro campo. E’ come oggi quando ci fanno vedere in ogni dove gli sgozzatori di Al Qaeda, ma si guardano bene da pubblicizzare le “eroiche gesta” dei nostri soldati e mercenari nei bordelli di Kabul, nei villaggi del Kosovo, lungo le strade dell’Irak.
Mio padre e mia madre rimasero sempre critici e distanti rispetto a certe derive legate alla sconfitta che incombeva sull’organizzazione a cui avevano aderito. Distanti anni luce, come racconto anche con testimonianze nel mio libro. Ma tutto questo poco importa nel giudizio complessivo. Oggi le BR non esistono più. Ma la violenza e la repressione aumentano geometricamente. E’ da questo assunto, da ciò che succede oggi, che bisogna ripartire per rileggere quegli episodi.
Di libri sulle BR ne abbiamo a decine. La violenza, letta in modo unilaterale, resta lo strumento principe per descrivere quell’esperienza. Decontestualizzata, astorica, intellettuale, è una lettura che serve unicamente ad accreditare la storia scritta dai vincitori. Io invece ho provato a scriverla dal punto di vista degli sconfitti; sconfitti, ma non arresi.

giovedì 21 gennaio 2010

Aiuti ad Haiti

mercoledì 20 gennaio 2010

Riformisti dal cuore tenero

"Tito Boeri 13.09.2005
Le politiche dell'immigrazione degli stati dell'Unione Europea stanno diventando sempre più restrittive per i lavoratori poco qualificati, mentre i diversi paesi competono tra di loro nel cercare di attrarre dall'estero lavoratori più istruiti. Da noi, invece, prevale un atteggiamento restrittivo su tutti i fronti. E nel dibattito pre-elettorale si continua a pensare che si possa gestire la politica dell'immigrazione a livello nazionale, ignorando ciò che avviene altrove."

Queste cose Tito Boeri le ha scritte nel 2005. In sostanza per lui se c'è una ragione per applicare politiche restrittive nei confronti dell'immigrazione questa dovrebbe focalizzarsi sugli "straccioni", quelli dequalificati e non in grado di esibire una laurea in economia e commercio.
Insomma uno dal cuore tenero. Magari la questione della "coscienza" la risolviamo con un po' di adozioni a distanza e la raccolta di abiti usati.

A questo si contrappone il fronte di quanti, molto semplicemente, li vorrebbero tenere a casa loro. Indistintamente.Tra questi ho scoperto un sacco di gente che combatte l'imperialismo.
Categoria mai molto in voga come in questo periodo, però talmente evanescente che alla fine ti fa perdere di vista quello che concretamente ti si muove sotto gli occhi.
Che dire?
Dico che il fronte dei reazionari a vario titolo è molto ampio. Le ragioni sono le più diverse ma, sotto sotto, quello che si intravede è solo la necessità di mantenere un privilegio di casta.
In più questi signori hanno l'ambizione di far quadrare il cerchio. In sostanza, una volta tenuta ferma la marea umana facciamo sì che i nostri baldi imprenditori non provino per nulla a delocalizzare, così risolviamo anche la questione della disoccupazione ed i salari crescono.

A me sfugge il motivo per il quale un tizio, che viene preso a calci nel culo e sfruttato, dovrebbe essere un mio nemico piuttosto che uno con cui allearmi e rovesciare questo sistema. Ma forse sono un uomo semplice e poco complicato.

Boeri e la riforma

fonte: http://www.precaria.org/contratto-unico-boeri.html

Da cinque anni a questa parte l’insicurezza di reddito è diventata di moda. Il tabù di un tempo, guai a parlare di precarietà, è diventato trendy ed è tutto un fiorire di libri, articoli, film, opere teatrali che trattano dell’argomento.
Finchè si tratta di operazioni commerciali non meritano risposte. Troppo il disgusto per chi traveste il marketing di ipocriti ‘scopi sociali’. Ma quando la paura del futuro e la competizione per il reddito, riguarda milioni di persone e a scriverne sono economisti del calibro del professor Tito Boeri, una risposta è d’obbligo.
Non fosse altro perché l’esimio docente della Bocconi, nonché editorialista della Repubblica, coordinatore del sito www.lavoce.info, è tenuto in grande considerazione da tutti quei soggetti politici e sindacali che ancora si sforzano di definirsi ‘riformisti’ o addirittura di ‘sinistra’. Le sue proposte trovano estimatori nella segreteria nazionale Cgil.
Il maggior pregio di ‘Un nuovo contratto per tutti’ di Boeri e Garibaldi, edito nel 2008 da Chiarelettere editore, è quello di svelare quali siano le idee di riforma del lavoro di un’ampia area delle elites italiane che puntualmente si tramutano in leggi, contratti e scelte di politica economica.

Chi paga la riforma?
Partendo da una descrizione del mercato del lavoro, che purtroppo non rispetta più l’attualità (la disoccupazione oggi non è più ai livelli del 2007/2008) supportata da un buon riepilogo storico dal 1964 ad oggi, gli autori lanciano la proposta di un contratto di lavoro unico, a tempo indeterminato senza limitazioni di tempo. Basta con lo ‘psicodramma’ (la definizione è dell’autore) dell’apposizione di un termine al contratto! Boeri parla di un mercato duale in cui gli atipici sono la parte emarginata. Per superare le differenze propone la creazione di un salario minimo orario, di un reddito minimo di sussistenza, indennità di disoccupazione uguale per tutti, e una serie di diritti minimi inderogabili validi universalmente. Dopo 3 anni, durante i quali il licenziamento è concesso previo indennizzo economico, il contratto diventa a tempo indeterminato, simile a quelli che ancora conosciamo oggi. I soldi per finanziare un riforma così totale del lavoro? Ci sono, dice il professore, basta eliminare gli attuali sussidi (cassa integrazione, mobilità, contratti di solidarietà, indennità di disoccupazione), unificare il fondo INPS a quello della gestione separata dei Co.co.pro. e aumentare i contributi pensionistici dei ‘precari’ fino ad arrivare al 33%. Aliquota oggi prevista da contratti a tempo indeterminato e determinato.

Boeri nel paese delle meraviglie
L’esperienza degli ultimi 2 anni, però, avrebbe dovuto mettere in guardia un economista esperto sulla validità di ricette tanto teoriche. Lontane non solo dal drammatico vissuto quotidiano di lavoratori in nero, partite iva a unico committente, interinali e contratti a progetto, ma anche dalla presunta verità scientifica. In realtà tali proposte rappresentano un pericolo per tutti i lavoratori, senza differenza di contratto. Infatti, è proprio in scritti come quello di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, che gran parte delle classi dirigenti trovano la giustificazione tecnica per scelte che negli ultimi 20 anni, e non ci vuole un PhD alla New York University per capirlo, non sono andate a favore della maggioranza dei cittadini italiani.

Performance contro i fannulloni: i nuovi dogma dei tecnocrati
Per rendersene conto basti osservare che non solo le idee ma alcuni dei termini utilizzati in varie parti del libro, come merito, produttività e performance, siano i caposaldi di tutte le ultime leggi promulgate dal governo: dall’accordo del 22 gennaio 2009 sulla riforma contrattuale, al Decreto legge Brunetta, passando per il rinnovo dei contratti del Commercio, il Decreto legge su conciliazione e arbitrato, il contratto nazionale dei Chimici fino ai nuovi contratti in discussione in questi mesi. Non tralasciando l’intesa di fondo con la proposta di legge che prevede l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, presentata da un altro professore, Pietro Ichino del P.d., l’ideatore dell’insulto diventato un ritornello, rivolto ai dipendenti di ministeri ed enti pubblici: ‘fannulloni’.
Fantasia al posto della giusta causa
Pensare di cambiare la situazione esistente con una legge, per quanto ambiziosa, è puro esercizio di fantasia. Manca tutta la parte relativa ai controlli, impossibili senza una seria riforma degli ispettorati del lavoro. Riformare per aggiungere, migliorare, investire e non per togliere la cassa integrazione, rimasta l’unico argine alla crisi dilagante.
E quale sarebbe la forza capace di costringere imprenditori e multinazionali, studi di commercialisti e case editrici, fabbriche e aziende agricole a pagare il 33% dei contributi a tutti, visto che impiegano centinaia di migliaia di lavoratori in nero (0% di contributi) co.co.pro (24% ma 1/3 lo paga il lavoratore) partite iva a unico committente (0% e scaricabili negli studi di settore), apprendisti (contributi ridotti a seconda del contratto)? Boeri non ce lo dice. Secondo lui un buon parametro di controllo potrebbe essere il calcolo del reddito tramite l’I.S.E.E., un’autocertificazione oggi usata per accedere ai servizi sociali, alle case popolari, agli asili nido. Complimenti. Ottima soluzione l’autocertificazione, in un paese dove 1/3 dell’economia è sommersa, il nero diffusissimo e l’evasione fiscale è recentemente stata condonata per legge.

I risultati delle riforme
Il risultato, come si è visto dopo l’introduzione dei contratti formazione lavoro, della liberalizzazione del part-time, del lavoro interinale, sarebbe privare anche quelle persone che oggi riescono a farsi assumere a tempo indeterminato per 3 anni delle tutele loro garantite dalla legge. Se Boeri e Garibaldi avessero mai svolto lavori precari ‘veri’ inoltre, saprebbero bene che la loro visione dell’azienda che non licenzia il precario: ‘perché dopo tre anni il prezzo da pagare per le imprese che hanno investito così tanto in capitale umano sarebbe troppo alto’ è vera solo in minima parte.

Un silenzio assordante
Il libro inoltre, parlando degli anni che vanno dall’esplosione incontrollata dei co.co.co. alla legalizzazione del caporalato (la Legge Treu sul lavoro interinale) fino alla precarizzazione di massa degli ultimi mesi, li definisce una ‘Rivoluzione silenziosa’. Secondo l’autore i cambiamenti sarebbero avvenuti in silenzio, senza che nessuno quasi se ne accorgesse.
Che faccia tosta! Ma silenziosa per chi?
Non certo per i precari e per chi da anni cerca, inascoltato, di gridare ai quattro venti le follie di un mondo del lavoro diventato un incubo. Cercando di urlare al conducente: Ohh! Ma dove cazzo stai andando! O detto più educatamente: di avvertire dei pericoli che la discontinuità di reddito avrebbe provocato e che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Le lacrime di coccodrillo-Treu
Da leggere il curioso siparietto condito da smisurati elogi all’ex ministro del lavoro Tiziano Treu e attuale responsabile lavoro del P.D. (quello che ha legalizzato l’intermediazione di manodopera, un tempo conosciuta sotto il nome di caporalato). In una intervista del 2005 ha onestamente ammesso, bontà sua, che è normale che le aziende assumano interinali o contratti a progetto visto i costi minimi sia in termini di diritti che economici. Grande, ci ha messo 8 anni ad ammettere e capire che la sua riforma oltre a far emergere lavoro nero (forse) ha legalizzato una condizione lavorativa di forte inferiorità. E non basta a placare il risentimento di intere generazioni di condannati al precariato, sapere che quelle norme furono sottoscritte da tutti i partiti presenti in parlamento dal 1993 ad oggi, comunisti inclusi, come fa cinicamente notare Boeri, che è anche consulente del Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.).
Fermare le cause di lavoro
Nel libro manca tutta l’analisi politica: cioè chi sono le forze che possono promuovere un vero allargamento dei diritti. Purtroppo e la riforma della legge sugli infortuni del lavoro è lì a dimostrarlo, sono molti i gruppi imprenditoriali e politici che spingono affinché nemmeno gli incidenti sul lavoro siano puniti con maggior severità. Se nemmeno 3 morti al giorno riescono a convincere le imprese della necessità di controlli, come è possibile che vengano costrette a pagare il 33% di contributi? A meno che, ma questo Boeri non ce lo dice, da una certa data in avanti tutti i contratti diventassero unici, ovvero con la possibilità dietro corrispettivo di essere sempre licenziati. E senza che i giudici o gli avvocati possano metterci il becco. E si, perché come ci spiega il prof. Boeri: ‘In Italia è davvero difficile licenziare e il livello di discrezionalità dei giudici del lavoro è troppo alto’.

Predica bene ma razzola…
Facciamo una controproposta all’esimio. Se invece di predicare nuove regole per tutti Boeri iniziasse da casa sua, cioè dalla prestigiosa e costosa Università Bocconi? Faccia un giro negli uffici di via Sarfatti, troverebbe diversi precari (assunti a progetto) che in realtà sono dipendenti a tutti gli effetti. Alcuni di loro si sono affidati a San Precario e uno ha pure avuto il coraggio di far causa all’Università. Ha ottenuto il riconoscimento di quanto gli spettava: un bel contratto a tempo indeterminato. Grazie alla sentenza di un giudice del lavoro del Tribunale di Milano.

Un nuovo compromesso sociale
Le trasformazioni del lavoro rendono urgente un nuovo compromesso tra lavoro e impresa, capace di superare gli enormi squilibri esistenti. La Repubblica non può continuare a lasciar fare, o peggio, legalizzare situazioni lavorative di precari a tutti gli effetti dipendenti nascosti dietro a paraventi di cooperative, finte partite Iva, co.co.pro., contratti interinali. Il costo sociale, di questa giungla nel lungo periodo diventerà insostenibile, provocando la paralisi del sistema pensionistico, delle indennità, della cassa integrazione, e di tutte le forme di assistenza pubblica oggi esistenti. Una distruzione voluta che sta avanzando pericolosamente.
Le imprese non riescono o non vogliono più pagare i contributi, lo Stato centrale vuole fare lo stesso con le pensioni e la liquidazione: è di questo che stiamo parlando. Non è più possibile garantire lavori a tempo indeterminato, ci ripetono tutti. Quindi è indispensabile dare un reddito ai cittadini nei periodi di inattività lavorativa. Ma non è mettendo contro i lavoratori, indeterminati contro precari, che si otterrà maggiore giustizia.
E’ necessario recuperare risorse dalle voragini della nostra società, buchi neri che potrebbero da soli finanziare un nuovo sistema di sicurezza sociale accessibile a tutti i cittadini. Evasione fiscale, transazioni finanziarie, patrimoni immobiliari, concessioni demaniali, soppressione delle Province, certificazione delle e-mail, scannerizzazione degli archivi della Pubblica Amministrazione. L’investimento su uno solo di questi settori, insieme al potenziamento e l’ammodernamento degli Ispettorati del Lavoro, oggi ridotti alla deriva, è strettamente legato a una qualsiasi ipotesi di riforma. Senza controlli e sanzioni severe, la barca dello stato assistenziale tanto bombardata, finirà per affondare. Trascinando la maggioranza a fondo.

Il dovere dell’azione
I precari, i lavoratori in nero, le partite Iva a 1000 euro al mese, hanno poco da sperare nelle promesse di riforma oggi in discussione. Più che la fede in qualche economista illuminato o in un miracoloso ravvedimento di politici/manager causa della crisi, è necessaria l’azione. Svelare il ricatto del reddito, premere sul riconoscimento delle istanze della maggioranza, informare; azioni che non possono più essere vissute come una scelta. Sono un dovere civile, unico motore che possa portare al riconoscimento di diritti e dignità per intere generazioni presenti e future.

Stefano Mansi

lunedì 18 gennaio 2010

Nuove BR e cyber terrorismo

Hanno arrestato Morlacchi con l'accusa di essere un terrorista. Meglio un potenziale terrorista visto che di terrorismo il nostro sembra che fino ad oggi non ne abbia prodotto.
Ritorneremo in seguito su questa vicenda. Al momento gli investigatori ci raccontano di aver trovato un manuale per cyber terroristi. Ora, visto che tra le istruzioni per i cyber terroristi c'è proprio quella di non conservare sul proprio pc documenti sensibili ci rimane il dubbio che tale documento in realtà lo possiamo trovare a casa di un sacco di gente.
Facendo un giro sulla rete, ad esempio, si trova questa simpatica "lezione" (del 2004 addirittura)su come operano i cyber terroristi da cui, in modo speculare, ne possiamo ricavare che un cyber terrorista serio ne avrà ricavato materiale per prendere le dovute precauzioni.
link:
http://www.consulteque.com/magazine_prof/index.phtml?_id_articolo=7001
Mah, l'impressione è che nella caccia al mostro da sbattere in prima pagina gli eroici difensori del bene pubblico abbiano solo trovato uno che ammira quello che è stato suo padre. E questo da noi è grave.

giovedì 14 gennaio 2010

Lezioni d'economia da Tremonti

Dicono che Tremonti sia un fenomeno, io penso che sia un pirla. Un affabulatore che incanta un pò di gente ma che alla sostanza non dice niente che vada al di là di formulette e frasi banali.
L'ultima è quella sul Pil che non intercetta e rappresenta tutta la ricchezza che il paese produce.
In effetti è così, lo hanno insegnato anche a mio figlio che ha 15 anni in una delle prime lezioni di economia.
Il Pil non misura ad esempio il lavoro in nero, quello che fanno le casalinghe ( a meno che non si trasformino in cameriere con tanto di busta paga a carico della famiglia), quello che fanno tutti i pensionati che si coltivano le carote e le cipolle nel giardino di casa e che regalano a parenti ed amici.Mi sfugge, in tutto questo, la Mafia e dove collocarla in termini di produzione del Pil

Insomma una roba banale che passa come notiziona al TG1,2 e 3.
Probabilmente lui si riferiva al sommerso, cosa che implicherebbe un tantino di sociologia spicciola tipo:
Tizio lavora in nero perché non ha alternativa sennò lo caricano su un aereo come clandestino
Caio lavora in nero perché lo fa come doppio lavoro per sopravvivere
I 100 miliardi rientrati dall'estero non erano né di Tizio né di Caio.
Così, tanto per dirne una.

Ieri sera l'ho sentito che diceva una roba sulle aliquote fiscali tipo " un sistema fiscale può essere giusto socialmente ma non efficace, ingiusto ma efficace. Bisognerebbe trovare la via di mezzo"
Geniale!
Io una lezioncina però la chiederei a lui ed a quelli come lui (sì anche a quelli che stanno nella sinistra riformista): scusate ci spiegate come cazzo è distribuita la ricchezza e, cosa più importante, come è distribuito il reddito?

mercoledì 13 gennaio 2010

Cronaca di Torino, il palazzo di via Bra 10

Riporto integralmente l'articolo che è apparso sulla Stampa oggi. Parla di un luogo ameno in Barriera di Milano. Senza andare a Rosarno basta girare tra i vicoli di questa città per farsi un'idea di come va, e non pensiate che è un'eccezione.

Trenta alloggi e non c'è il riscaldamento

NICCOLÒ ZANCAN

torino
Il portone è spaccato, il citofono a pezzi. Frutta marcia nel cortile interno, dove decine di disperati dormono ammassati nei box auto, mentre i topi infestano le cantine. Via Bra 10, nel cuore antico di Barriera di Milano, è un palazzo pieno di storie, quasi nessuna allegra. È l’unica casa di Torino senza amministratore di condominio. Fuori dal controllo. Abbandonata da tutti.

L’ultimo amministratore è scappato sei anni fa, qualcuno dice per esasperazione, altri sostengono per tenersi i soldi della cassa. Non è rintracciabile. Tutti quelli che hanno tentato di prenderne il posto hanno abbandonato il campo in fretta. Sulla lettera ingiallita, ancora appesa in bacheca, c’è scritto: «Si avvisano i condomini che a causa delle forti morosità l’amministrazione non può sostenere le spese poiché non ci sono fondi. Pertanto vi comunichiamo che non abbiamo potuto provvedere al pagamento della polizza assicurativa e dell’acquedotto». Erano i giorni della resa.

Da sei anni nessuno pulisce gli spazi comuni, nessuno tinteggia le scale ormai gonfie di umidità, il riscaldamento non funziona, ognuno si arrangia come può. Il signor Bedri, ad esempio, albanese di 42 anni, dorme con il giaccone, la tuta da ginnastica e le calze spesse: «Non posso permettermi una stufa elettrica, trovo lavoro come manovale solo qualche giorno alla settimana. E se poi non pago la bolletta, mi staccano anche la luce». Altri usano stufe a legna montate in qualche modo.

Quattro piani, otto appartamenti per ballatoio, sei cartelli vendesi all’ingresso. Gli italiani sono scappati tutti, ora vorrebbero scappare anche i residenti stranieri che stanno pagando il mutuo. La famiglia di Kan Kouassi, originaria della Costa D’Avorio, due figli piccoli, 75 mila euro per 55 metri quadrati: «Questo palazzo è abbandonato, ci siamo fatti fregare. Vorremmo tornare indietro, almeno essere in affitto». La signora Najat, marocchina: «Vorrei scappare, questa casa è in disgrazia. Ma chi compra qui?». Ecco, a questo proposito, è interessante il racconto dell’unico italiano passato in via Bra 10 durante il pomeriggio di ieri.

Giaccone scuro, camicia bianca e cravatta. Il nome preferisce non dirlo. Ma il suo lavoro lo spiega così: «Faccio delle acquisizioni negli stabili abbandonati da dio, qui gli appartamenti te li tirano dietro». Ne ha comprato uno all’ultimo piano, ma è piuttosto preoccupato sui tempi di realizzo: «Da due anni non viene a vederlo nessuno. Tutta Barriera di Milano è così. I progetti di riqualificazione sbandierati sui giornali hanno tempi biblici. Mentre il problema è adesso. La mia società ha venti alloggi in questa zona, paghiamo gli agenti, facciamo pubblicità, ma il risultato non cambia. Invenduti».

Piccola verifica attraverso un numero di telefono appeso sul portone d’ingresso di via Bra 10: per un alloggio di 40 metri quadrati, ristrutturato - camera, cucina, bagno - chiedono 50 mila euro trattabili. Ma come si fa senza amministratore? «In effetti temporaneamente non c’è - spiega l’agente immobiliare - è un palazzo un tantino problematico».

In ogni box auto dormono fino a cinque persone contemporaneamente, raccontano i condomini. Anche i tossicodipendenti ormai sanno che il portone è sempre aperto. I bambini crescono fra un carrello della spesa abbandonato e i rifiuti. Problemi grandi e piccoli, per i residenti cinesi, albanesi, centrafricani e marocchini. «Ho fatto un abbonamento Internet - spiega la signora Fatima - ma come faranno a trovare il mio appartamento in questo sfacelo». Almeno, per coerenza, qualcuno tolga il vecchio cartello che ancora resiste in cortile: «Regolamento condominiale. È vietato occupare per brevi istanti i locali di proprietà comune».

domenica 3 gennaio 2010

Buon anno una cippa

Insomma buon anno un cazzo.
Per simboleggiarlo, insieme a quelli passati, un pezzo dei godfather che si intitola "nascita, scuola,lavoro e morte" che accompagna le immagini di un trailer sui Sopranos.
Un filo conduttore che ci porterà dalla culla alla tomba guidati da una banda di mafiosi. Minchia che soddisfazione.
A proposito, lo sapete che a qualcuno di voi toccherà morire quest'anno? Anche se avete investito in borsa e fate progetti per il futuro con la vostra faccina del cazzo!
Buon anno.