sabato 31 gennaio 2009

Zimbabwe, graceland.




Nel 1986 Paul Simon fece un concerto nello Zimbabwe. Graceland.
Con quella musica e quelle contaminazioni iniziò l'epoca del world music. Rifarebbe oggi un concerto con lo stesso titolo in quei luoghi?
Io penso di no.
Da quelle parti un ex e vecchio guerrigliero, con una giovane moglie che acquista diamanti in giro per il mondo , tiene al guinzaglio quello che è rimasto del suo popolo.
Quel vecchio una sola cosa dignitosa dovrebbe fare. Suicidarsi. Dare con quel gesto un segno di speranza a quella gente. Fare un piccolo atto rivoluzionario e con questo ridare dignità alle lotte che ha combattuto per loro e per noi. Un tempo.

giovedì 29 gennaio 2009

Ma quale mercato? e quale economia?

«Veltroni si misuri con il merito e ci dica se sull'inflazione e il contratto nazionale la Cgil dice cose giuste o sbagliate»: Guglielmo Epifani

Per una volta sono d'accordo con Epifani. La questione è che la sua domanda rimarrà senza risposta per quanto riguarda il merito.
D'altra parte come è possibile entrare nel merito quando gli esempi che abbiamo, e mi riferisco alle opinioni in materia di economia in generale, tra lor signori sono così conflittuali?

Ieri la Stampa ospitava nelle sue pagine interne l'elenco delle persone che, a suo giudizio, si portavano sul groppone la responsabilità di questa recessione.
Niente di rivoluzionario, per carità.
Come al solito queste liste di proscrizione vengono fatte alla fine e mai durante un percorso.

Questo è l'elenco parziale :

"Greenspan, anzi, ha incoraggiato lo sviluppo vertiginoso e pericoloso dei mutui-spazzatura e ha convinto i proprietari delle case ad abbandonare il tasso fisso per quello variabile, esponendo così migliaia di famiglie alla «tagliola» dell'impennata dell'assegno mensile, sino al punto di non ritorno, quando la rata è diventata, sotto i colpi della tempesta, troppo alta per consentire loro di onorarla.

Il presidente della Fed, inoltre, ha difeso e sostenuto per anni il boom dei derivati, strumenti che già esistevano quando lui è arrivato alla banca centrale Usa e ne ha preso il controllo, ma strumenti che sotto la sua amministrazione sono letteralmente lievitati, passando da un valore di 100 trilioni (100 mila miliardi) di dollari nel 2002 a 500 trilioni cinque anni dopo. Di recente, Greenspan, ha ammesso che diverse sue convinzioni nel lungo termine si sono dimostrate sbagliate.

"BILL CLINTON (Ex Presidente Usa) - Ex presidente degli Usa. Ha abolito nel 1999 il Glass Steagall Act, una legge che stabiliva la completa separazione tra le banche commerciali e quelle d'investimento. Questa mossa ha avviato l'era delle superbanche e ha innescato la «bomba» dei mutui subprime, esplosa dopo molti anni.


GEORGE W. BUSH (Ex presidente degli Stati Uniti) - L'amministrazione del presidente uscente degli Usa non ha certamente messo il freno all'erogazione della montagna di denaro finita in prestito a migliaia di sottoscrittori che non presentavano garanzie di rimborso. Non ha trattenuto la corsa di Wall Street, con regole che impedissero il successivo bagno di sangue.

GORDON BROWN (Premier britannico) - Si è lasciato completamente abbagliare dai protagonisti della City e dai loro vagiti. Ha anteposto gli interessi dello «Square Mile» a quelli di altre realtà economiche, coma l'industria manifatturiera. Ha reintrodotto la bassa tassazione per migliaia di banchieri stranieri che lavorano a Londra e società di private equity.

PHIL GRAMM (Ex senatore del Texas) - Ha combattuto a lungo e duramente per imporre la deregulation finanziaria, incoraggiato dall'allora presidente Bill Clinton. Il suo lavoro ha facilitato la crescita esplosiva dei derivati e dei «credit swaps». Nel 2001 disse in una discussione del Senato: «Guardando ai mutui subprime vedo il sogno americano in atto».

GEIR HAARDE (Primo ministro islandese) - Ha annunciato venerdì scorso che vorrebbe dimettersi e indire nuove elezioni a maggio, sull'onda delle proteste popolari per il crac finanziario del Paese. A ottobre le tre più grandi banche islandesi erano collassate sotto
i debiti. Il governo si è fatto prestare 2,1 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale e si è esposto con diversi Paesi europei.

Dopo di che sempre la Stampa, oggi, illustra l'opinione di un (?) economista, Alberto Bisin, che tra le altre cose afferma:

"Ieri è apparsa sul New York Times una lettera aperta al presidente Obama. Ha l’obiettivo di rimarcare che il consenso al piano di stimolo fiscale proposto dalla sua amministrazione è meno vasto di quanto egli non creda, almeno tra gli economisti accademici.

L’iniziativa, originata dai premi Nobel Ed Prescott e Vernon Smith, è stata sottoscritta da numerosi altri economisti, oltre 200, tra cui io stesso.

Sebbene la lettera sia formalmente indirizzata al Presidente, essa ha anche altri destinatari. L’elezione di un democratico alla Casa Bianca in un momento di grave crisi economica ha infatti indotto molti economisti di scuola keynesiana ad argomentare sulla stampa sempre più apertamente a favore di politiche economiche di espansione fiscale. Queste politiche comportano una maggiore spesa pubblica e vari interventi diretti di sostegno a industrie in difficoltà. Alcuni commentatori, tra cui purtroppo Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia 2008 ed editorialista del New York Times, hanno preso a sostenere pubblicamente che la professione degli economisti sia concorde nel ritenere necessari questi tipi di intervento. Krugman (sul New York Times del 26 gennaio) è giunto a tacciare di «malafede» qualunque economista sostenga il contrario.

In realtà sono ormai più di vent’anni che le teorie economiche keynesiane, su cui è fondata la necessità di grossi stimoli fiscali durante una recessione, sono completamente screditate in accademia. Lo sono da un punto di vista teorico, perché presuppongono comportamenti severamente miopi e irrazionali da parte dei consumatori e degli imprenditori. Lo sono anche da un punto di vista empirico, semplicemente perché non funzionano. Anche gli economisti neo-keynesiani, molti dei quali alla Federal Reserve come Ben Bernanke, hanno abbandonato gli studi di politica fiscale e ormai da anni si occupano essenzialmente di politica monetaria."

In buona sostanza, a leggere questo dotto signore, è stato sprecato un premio nobel per l'economia. La sua tesi è che non ha senso espandere il debito pubblico per sostenere la domanda ma che, al contrario, bisognerebbe intervenire "solo" sul fronte fiscale sia per le imprese che per le famiglie.
Devo dire che questa sua esposizione risulta oscura quando afferma anche che:


"Tagli fiscali a famiglie e imprese sono interventi di gran lunga più efficienti. È vero che, ora come ora, i tagli fiscali andrebbero in larga parte a incrementare i risparmi, non a sostenere i consumi. Ma questo perché le famiglie e le imprese americane negli ultimi dieci anni hanno consumato tanto e risparmiato poco, godendo di capitale a buon mercato dalla Cina e da altri investitori internazionali. Inoltre, i loro pochi risparmi sono stati ridotti del 20-30% dal crollo dei valori immobiliari e del mercato azionario nel corso dell’anno passato. Sostenere artificialmente i consumi delle famiglie e rallentare il declino di industrie malate non è la via alla soluzione della crisi. Da questa crisi si esce solo facilitando la riallocazione di capitale e lavoro alle industrie più produttive. Quali queste siano è compito dei mercati finanziari identificare."

Quindi, dopo un esauriente elenco di responsabili della crisi per motivi legati ad una deregulation selvaggia e fatta in virtù di una fede cieca nel mercato finanziario, abbiamo uno che dice (in sostanza) meno tasse ma non più spesa pubblica e missione al mercato finanziario per l'identificazione delle aziende su cui ri-allocare risorse economiche ed umane.Immaginiamo quindi meno tasse e meno spesa, di conseguenza meno spesa sociale per finanziare il taglio delle tasse (al contrario risulta difficile capire come si può contenere il debito pubblico). Come, attraverso quali processi e con quale impatto sulla società non è dato sapere.
E poi:
Quali sono i principi per cui una impresa è malata? Il suo bilancio? La sua strategia di marketing? I suoi prodotti?
Se le famiglie pensano solo a risparmiare (razionalmente in un quadro del genere in cui si sommano al poco reddito le poche risorse per sostenere spese sulla salute e sulla previdenza) e a consumare sempre meno,questo non fa avvitare ulteriormente la situazione?
Come si pensa di gestire un periodo in cui ,in attesa degli aggiustamenti del mercato ,la gente ha problemi di sopravvivenza?

Sempre nella giornata di ieri, nella posta che ricevo, mi è arrivata una news letter da una società che si occupa di investimenti in cui c'era il video (che potete vedere) nel quale vengono illustrati i risultati degli studi di un paio di economisti e del FMI che evidenziano l'effetto delle politiche fiscali e degli interventi pubblici fatti, in termini di maggiori investimenti in infrastrutture, e la relazione che questi hanno con il ritorno in termini di domanda per l'economia.
In sintesi (esempio sugli USA):
- a fronte di una riduzione di 1 $ di tasse sui salari si ha un volano in termini di consumi corrispondente a 1,28$
- la stessa riduzione sulle imprese produce 0,30 centesimi
- impiegato per investire in infrastrutture produce 1,59$ di consumi
- speso in sussidi di disoccupazione produce 1,63$
Come potete leggere quelle che "producono" ( o meglio, che hanno prodotto )minor effetto sono le politiche fiscali a favore delle aziende.
Il limite dato dagli investimenti pubblici è nel:
a) impatto su una media di solo il 2,5% del pil
b)tempo necessario (molto) affinché si produca l'effetto

Se l'esperienza empirica ha un suo fondamento nei risultati constatiamo come le leve su cui agire, "velocemente" ,dovrebbero essere quelle legate a salari e sussidi di disoccupazione. Da qui i soggetti interessati sono quelle fasce sociali che rappresentano la maggioranza della popolazione.
In tutto questo rimangono un pò di questioni aperte:
1- fino a che punto è pensabile sostenere la domanda di un mercato "libero" con un debito che è pubblico.Quale che sia la forma che esso assume.
2- che coerenza c'è tra esperienza e politiche economiche e sociali fino ad oggi sviluppate? In particolare sul fronte della riduzione dei salari, della precarizzazione del lavoro e della creazione di instabilità sociale conseguente?
3- perché dovrebbe essere il "mercato" a decidere dove e come mettere i soldi se quei soldi non sono del "mercato"
4- abbiamo bisogno di un mercato e di meccanismi di questa natura per noi e per i nostri figli?





mercoledì 28 gennaio 2009

Salari e potere d'acquisto. Incentivi e libero mercato




Qui trovate un articolo del sole 24 ore sull'andamento dei salari in funzione di una domanda: sono aumentati o diminuiti in questi anni? Ed il potere di acquisto? E se sono diminuiti chi ci ha guadagnato?
Se avete voglia fate le vostre considerazioni (anche se l'elaborazione è fatta su dati campionari) io, a breve, farò le mie.



Qui trovate un articolo della Repubblica che sintetizza l'effetto degli incentivi statali sulla vendita di un prodotto: l'auto.
Anche in questo caso qualche considerazione sul senso dell'economia "capitalista", del libero mercato e di chi alla fine beneficia della massima leghista "utili per pochi e danni e rischi a carico della collettività" la vogliamo fare?

martedì 27 gennaio 2009

Prossima fermata?

Immersione nella rivolta d'Atene e del resto della Grecia. L'attenzione viene catturata da una ragazza esile, dai capelli nerissimi, che si aggira con una sagoma umana ed una bomboletta spray. Riempie marciapiedi e muri di un magro cadavere, con scritto sulla pancia TUO FIGLIO.

Ne era piena la città, di quel corpo disegnato, e pieno anche di persone che si bloccavano a guardarlo, interrompendo lo shopping prenatalizio, addolorate e indignate. Quella sagoma ha un nome ben preciso: quello è il corpo di Alexis Grigoropoulous, studente quindicenne, ucciso a freddo dalla pistola di un poliziotto, senza alcun motivo, tra i vicoletti di Eksarkia, quartiere di Atene pullulante di ragazzi, negozi di strumenti musicali e locande dove mangiare e bere a prezzi stracciati. La avvicino subito ed in pochi minuti mi anticipa quello che vivrò nei successivi giorni, o meglio, nelle interminabili nottate di scontri che hanno riempito la capitale dell'Ellade per un intero mese.
Non dice il suo nome per motivi di sicurezza, data la quantità di arresti avvenuti negli ultimi giorni. Sarà solo D. Non è restia a parlare, però, sembrava non aspettare altro: quelle sagome che disegna, con il viso coperto da fazzoletti imbevuti di una crema contro gli effetti dei gas e dalla maschera antigas, sono il simbolo di come questo movimento spontaneo e violento voglia allargarsi, comunicare a più persone possibile per fare in modo che la rivolta si espanda e si riempia di contenuti sociali e politici che vadano al di là della lotta contro la violenza degli apparati di Stato.

Non si fa in tempo a conoscerla che parte un'altra carica dei M.A.T., i reparti speciali riconoscibili dalle divise verdi (la normale polizia anti-sommossa è vestita con divise blu): senza di lei non sarei riuscita ad uscirne salva, perché il modo di muoversi di questi reparti è di gran lunga diverso da quello che siamo abituati a vedere in Italia. 
''Non usano solamente lacrimogeni per disperderci. I M.A.T., quegli assassini, si infilano all'interno del corteo in piccoli gruppi, all'improvviso, usando quantità indescrivibili di armamenti chimici di ogni genere: lanciano lacrimogeni di tipo Cs, granate assordanti, spray urticanti e una polvere paralizzante di un vago colore giallognolo. E' raro che usino il manganello, lo portano agganciato dietro la schiena: non ne hanno bisogno perché ti arrestano poco dopo averti paralizzato con le loro polveri, ti prendono mentre non riesci a muoverti e senti i polmoni scoppiarti dentro'', inizia a raccontare.''Hanno ucciso un ragazzo di 15 anni, hanno ucciso uno di noi, uno studente come tanti. L'hanno ammazzato senza un motivo ed ora è giusto che tutto bruci: deve bruciare tutto, tutto quello che simboleggia il loro potere, tutto quello che è il loro capitalismo, il loro commercio, i loro beni di lusso. Il superfluo deve sparire da questa città e dalle altre di questo Paese, tutti devono capire che questo governo corrotto e militarista deve andare via, che la classe dirigente deve sparire, che non abbiamo niente da perdere, che ci hanno privato del diritto al futuro dal momento in cui siamo nati, che siamo una generazione senza alcuna speranza e che ora vogliamo dire la nostra. Vogliamo riprenderci le strade per prima cosa, poi tutto il resto''. 
E' un fiume in piena, parla senza respirare mentre mi dona un po' di crema da spalmare sul viso per provare a calmare un po' quel senso di soffocamento e bruciore. 

''Non avevamo mai avuto a che fare con una simile portata di lacrimogeni: da quando è stato ucciso Alexis sono state usate più di 5 tonnellate di armamenti chimici vietati dalle convenzioni internazionali: l'aria è satura e noi siamo stremati. Tutte le principali facoltà universitarie sono occupate da giorni in un susseguirsi di assemblee partecipate e ordinate malgrado il marasma totale che le circonda e la spontaneità di questo movimento rivoltoso. La gente è con noi. Lo sciopero generale di ieri ne è stata la prova: il Paese è paralizzato: non siamo solo noi, non è solo il movimento anarchico a non riuscire più a contenere la sua rabbia, ma è l'intero Paese a comprendere la nostra lotta, ad appoggiarla, ad aiutarci a farla crescere''.
In effetti quello che racconta D., mentre tossiamo ripetutamente, si palesa ai miei occhi stranieri in poche ore: Atene è una città che sta largamente dalla loro parte, che non si dispera per le macchine bruciate o per gli interi palazzi evacuati a causa degli incendi causati dagli scontri; non solo giustifica la rabbia, ma la guarda con un sorriso quasi speranzoso, come una boccata d'aria pura in una società che fa sentire tutti sempre più vacillanti, precari. Perché la Grecia è un Paese con una situazione sociale allo stremo, dove la precarietà si sta radicando in ogni settore e il mondo dell'istruzione ha preso l'ultima mazzata con la riforma scolastica voluta dal governo Karamanlis.

Da poche ore stanno girando per la città due comunicati che D. mi fa leggere con gli occhi entusiasti: uno a firma dei lavoratori di Atene, l'altro firmato da centinaia di soldati che si sono rifiutati di affiancare i reparti speciali contro studenti universitari, lavoratori e combattenti del movimento antimilitarista.
''Lo vedi che non siamo soli? Questo movimento sta crescendo, guarda cosa ci dicono i lavoratori portuali, quelli che hanno lottato contro i colonnelli...sono proprio loro a dirci di andare avanti, a dirci che dobbiamo arrivare dove loro non sono riusciti, a dirci di non isolarci e rimanere soli, ma di estendere la nostra rabbia, di condividerla e foraggiarla, di non ascoltare le organizzazioni politiche e fare tutto ciò che crediamo sia giusto fare per rispondere a questa pressante ed inaccettabile militarizzazione e precarizzazione delle nostre vite e dei nostri territori''. Le brilla lo sguardo quando mi racconta delle decine di centinaia di persone che da settimane stanno vivendo giorno e notte per le strade, rispondendo agli attacchi della polizia senza mollare: le brilla come brilla a tutta un'intera generazione che non vuole più abbassare la testa.

Valentina Perniciaro
Fonte: peacereporter

Non nel loro nome

בשום אופן לא! לא בשמם, לא בשמנו!
נכתב על ידי מיכאל ורשבסקי
Tuesday, 20 January 2009


רמטכ"ל הצבא הישראלי, גבי אשכנזי, במחנה הריכוז אושוויץ-בירקנאו
ב-30 באפריל 2008
אהוד ברק, ציפי ליבני, גבי אשכנזי ואהוד ברק - אל תעזו להראות את פרצופכם המכוער באף טקס זכרון לגיבורי גטו וורשה, לובלין, וילנו או קישינב.

וגם אתם, ראשי "שלום עכשיו", אשר בעבורכם שלום משמעו פסיפיקציה, השקטה, של ההתנגדות הפלסטינית בכל אמצעי שהוא, כולל השמדת עם. כל אימת שאהיה שם, אעשה כמיטב יכולתי לגרש כל אחד מכם מארועים אלה, משום שעצם נוכחותכם בהם מהווה חילול קודש בלתי נסבל.



לא בשמם!

אין לכם כל זכות לדבר בשם קדושי עמנו המעונים. אתם אינכם אנה פראנק של מחנה ההשמדה ברגן-בלזן, אלא הנס פראנק, הגנרל הגרמני אשר שם לעצמו את הרעבתם ואת חיסולם של יהודי פולין.

אינכם מיצגים כל המשכיות לגטו וורשה, משום שגטו וורשה ניצב היום לנגד עיניכם, מושם למטרה בידי הטנקים והארטילריה שלכם, ושמו עזה. עזה, אותה החלטתם למחוק מעל פני המפה, כפי שהחליט הגנרל פראנק לחסל את הגטו. אך שלא כגטאות פולין ובלרוסיה, בהם היהודים נותרו בודדים במערכה, עזה לא תושמד משום שמיליוני איש ואישה מכל קצוות העולם בונים מגן אנושי רב עוצמה ועליו חרוטות שתי מילים: לא יִשְנה!


לא בשמנו!

יחד עם עשרות אלפי יהודים מקנדה ועד בריטניה, מאוסטרליה ועד גרמניה, אנו מזהירים אתכם: אל תעזו לדבר בשמנו, משום שנרדוף אתכם, עד גיהינום פושעי המלחמה במידת הצורך, ונאכיל אתכם במילותיכם עד אשר תבקשו מחילה על שעירבתם אותנו בפשעיכם. אנו הם בניהם של מלה זימטבאום ומארק אדלמן, של מרדכי אנילביץ' וסטפן הסל, לא שלכם, ואנו מפקידים את מסרם למין האנושי בידי לוחמי השחרור של עזה: "אנו לוחמים למען חירותכם ולמען חירותנו, למען גאוותכם ולמען גאוותינו, למען כבודכם האנושי, החברתי והלאומי ולמען זה שלנו..." (פניית גטו וורשה לעולם, פסח 1943(.

אבל עבורכם, מנהיגי ישראל, "חירות" הינה מילה גסה, אין בכם גאווה ואינכם מבינים כבוד האדם מהו.

אין אנו "עוד קול יהודי" כי אם הקול היהודי היחיד הרשאי לדבר בשם קדושיו המעונים של העם היהודי. קולכם שלכם אינו דבר מלבד צווחותיהם החייתיות של מרצחי אבותינו.

מישל ורשבסקי,
המרכז לאינפורמציה אלטרנטיבית,
ירושלים





bsolutely Not! Not in Their Name, Not in Ours
Ehud Barak, Tzipi Livni, Gabi Ashkenazi and Ehud Olmert--don’t you dare show your faces at any memorial ceremony for the heroes of the Warsaw Ghetto, Lublin, Vilna or Kishinev. And you too, leaders of Peace Now, for whom peace means a pacification of the Palestinian resistance by any means, including the destruction of a people. Whenever I will be there, I shall personally do my best to expel each of you from these events, for your very presence would be an immense sacrilege.

Not in Their Names

You have no right to speak in the name of the martyrs of our people. You are not Anne Frank of the Bergen Belsen concentration camp but Hans Frank, the German general who acted to starve and destroy the Jews of Poland.

You are not representing any continuity with the Warsaw Ghetto, because today the Warsaw Ghetto is right in front of you, targeted by your own tanks and artillery, and its name is Gaza. Gaza that you have decided to eliminate from the map, as General Frank intended to eliminate the Ghetto. But, unlike the Ghettos of Poland and Belorussia, in which the Jews were left almost alone, Gaza will not be eliminated because millions of men and women from the four corners of our world are building a powerful human shield carrying two words: Never Again!

Not in Our Name!

Together with tens of thousands of other Jews, from Canada to Great Britain, from Australia to Germany, we are warning you: don't dare to speak in our names, because we will run after you, even, if needed, to the hell of war-criminals, and stuff your words down your throat until you ask for forgiveness for having mixed us up with your crimes. We, and not you, are the children of Mala Zimetbaum and Marek Edelman, of Mordechai Anilevicz and Stephane Hessel, and we are conveying their message to humankind for custody in the hands of the Gaza resistance fighters: "We are fighting for our freedom and yours, for our pride and yours, for our human, social and national dignity and yours." (Appeal of the Ghetto to the world, Passover 1943)

But for you, the leaders of Israel, “freedom” is a dirty word. You have no pride and you do not understand the meaning of human dignity.

We are not “another Jewish voice,” but the sole Jewish voice able to speak in the names of the tortured saints of the Jewish people. Your voice is nothing other than the old bestial vociferations of the killers of our ancestors.


Non avete diritto di parlare in nome dei martiri del nostro popolo. Non siete Anne Frank del campo di concentramento di Bergen Belsen ma Hans Frank, il generale tedesco che affamò e distrusse gli ebrei della Polonia.

Voi non rappresentate alcuna continuità con il ghetto di Varsavia, perché oggi il ghetto di Varsavia è proprio di fronte a voi, preso di mira dai vostri carri armati e dalla vostra artiglieria, e il suo nome è Gaza. Gaza, che avete deciso di eliminare dalla mappa, come il generale Frank intendeva eliminare il Ghetto. Ma, a differenza dei ghetti della Polonia e della bielorussia, nei quali gli ebrei furono praticamente lasciati soli, Gaza non verrà eliminata perché milioni di donne e uomini dei quattro angoli del nostro mondo stanno costruendo un potente scudo umano che porta le due parole: Mai Più!

Non in nostro nome!

Assieme a decine di migliaia di altri ebrei, dal Canada alla Gran Bretagna, dall'Australia alla Germania, vi avvertiamo: non osate parlare in nostro nome, perché vi inseguiremo, se sarà necessario persino nell'inferno dei criminali di guerra, e vi ricacceremo le vostre parole in gola fino a che non chiederete perdono per averci coinvolti nei vostri crimini. Noi, non voi, siamo i figli di Mala Zimetbaum e Marek Edelman, di Mordechai Anilevicz e Stephane Hessel, e portiamo il loro messaggio all'umanità perché sia custodito nelle mani dei combattenti della resistenza a Gaza: "Noi combattiamo per la nostra libertà e per la vostra, per il nostro orgoglio e per il vostro, per la nostra dignità umana, sociale e nazionale, e per la vostra" (Appello del Ghetto al mondo, Pasqua Ebraica del 1943).

Ma per voi, leader di Israele, " libertà" è una parola sconcia. Voi non avete orgoglio e non comprendete il significato di dignità umana.

Fonte: http://www.alternativenews.org
Noi non siamo "un'altra voce ebraica", ma la sola voce ebraica che possa parlare in nome dei santi torturati del popolo ebraico. La vostra voce non è altro che le vecchie urla bestiali degli assassini dei nostri antenati.

Memoria, memorie e smemorati

Ebrei a Varsavia




Soldati italiani conducono alla fucilazione partigiani e civili slavi. A calci


Se dobbiamo ricordare che non sia qualcosa ma che sia tutto. Mettendo in fila l'orrore per come è nella sostanza. Senza tanta retorica, ma riconoscendoci in lui perché è parte di noi stessi.Della nostra storia.

Se fosse cosi' semplice la questione di come eliminare l'orrore affidandoci solo alla memoria avremmo risolto molto e vivremmo, a qualsiasi latitudine, in pace e pensando a rendere "ricchi" noi stessi, i nostri figli ed i nostri amici.

Ma di quale memoria e di quale orrore dobbiamo tenere traccia? Io credo che dobbiamo partire da quella memoria che ci riporta al senso del giusto, alla prevaricazione, al rapporto tra forze disuguali, alla ricchezza ed a chi possiede. All'intollerabile pretesa di avere senza dare e senza averne diritto. Alla pretesa di essere sempre vittime e mai carnefici. All'orrore della disonestà intellettuale che genera mostri e gente silente. Omertosa.
Di questo dovremmo tenere traccia. Ecco, partiamo da chi è vittima dell'orrore, da quale ingiustizia e visione del mondo e della società è nato. Da chi non ha più memoria o l'ha solo per se stesso. Forse dovremmo parlare di giornate delle memorie e dovremmo evitare che di queste si occupino gli smemorati.



Che memoria hanno questi?

Punto di partenza e di arrivo. Da dove partiamo con la memoria qui?



E della memoria Armena chi tiene traccia?



sabato 24 gennaio 2009

Prendetevi un caffè con il barista di Lampedusa

"I cittadini di Lampedusa devono stare tranquilli perché la situazione è sotto controllo.
Faremo delle cose per compensarli di questo disagio, che non dipende dal governo ma dal fatto che Lampedusa è la parte d'Italia più vicina all'Africa",
Gli immigrati che arrivano a Lampedusa sono liberi di moversi, non è mica un campo di concentramento...sono liberi di andarsi a prendere anche una birra....".
"Sono andati in paese come fanno di solito, solo che adesso sono 1.800. Un numero veramente rilevante".
Tutte le situazioni sono sotto controllo anche perché non vedo dove questi immigrati possano andare. Tanto c'è un mare impossibile e quindi non possono fare altro che stare lì".
Berlusconi III


Quello che ha rilasciato queste dichiarazioni non è un pazzo, è uno che di mestiere fa il presidente del consiglio.Di questo figuro una parte degli italioti ha fiducia. Quelli che sono come lui che parlano come lui che vorrebbero avere i suoi soldi e che sono, in fondo, simpatici e fascisti come lui. Hanno una logica semplice, minimizzano e puntano l'indice da qualche altra parte.
Quindi, sarà contento il gestore del bar di lampedusa che vede entrare 1.800 clienti a prendersi una birra. Sono soldi quelli. Mica cazzi. Presente il discorso sull'ottimismo e dui consumi? A Lampedusa hanno risolto almeno un problema.
E poi se hai sfiga e stai di fronte all'Africa che cazzo pretendi. Mica pensi che arrivino degli svedesi da lì.
In ogni caso tutto è sotto controllo. Quelli sono in un'isoletta circondata dal mare, noi tra un po' avremo 30.000 soldati che ci faranno stare più sicuri e tranquilli, un barista diventerà più ricco, e sul 2 vedremo qualche bel servizio che ci racconterà come tutto è sotto controllo. L'Italia diventerà un repubblica federale come gli states, le tasse diminuiranno e tutti avremo uno smagliante sorriso sulla faccia.
Se non fosse per il cielo grigio che rompe i coglioni e l'ottimismo ed il freddo ci sarebbe solo che da rilassarsi.

venerdì 23 gennaio 2009

I Could Not, In Good Conscience, Continue To Serve In The U.S. Army”

Statement of André Shepherd at press-conference in Frankfurt/M. (Germany), November 27, 2008

Hello,

My name is Andre Shepherd, and I was a member of the U.S. Army before finding that my conscience would no longer allow for me to continue in such a capacity.

I am currently Absent With Out Leave (AWOL) and am requesting asylum in Germany. I am asking for your support in this difficult matter.

I enlisted in the military in January of 2004 and worked my way up in rank from private to specialist by the time I left my unit in June of 2007. I served most of my enlistment in Katterbach, Germany, with the 412th Aviation Support Battalion and was deployed to Iraq from September 2004 to February 2005.

My mission in Iraq was to repair and maintain the AH-64 Apache helicopter, which were then used to support the infantry or to find and destroy the “enemy combatants.”

My job appeared harmless, until one factors in the amount of death and destruction those helicopters caused to civilians in Iraq.

When I read and heard about people being ripped to shreds from the machine guns or being blown to bits by the Hellfire missiles as well as buildings and infrastructures being destroyed I began to feel ashamed about what I was doing.

It is a sickening feeling to realize that I took part in what was basically a daily slaughter of a proud people.

The second battle for Fallujah is a vivid reminder of the level of destruction that these and other weapons can inflict upon a population.

I believe the Apache is responsible for a significant portion of the civilian death toll in Iraq which at last count was at least 500,000.

I am remorseful for my contribution to these heinous acts, and I swear that I will never make these mistakes again.

When enlisting, I took an oath to “support and defend the Constitution of the United States against all enemies, foreign and domestic.”

After my deployment to Iraq, however, I began to question whether I was doing what I had signed up to do.

I spent many months researching the causes of the wars in Iraq and Afghanistan and what the U.S. military was doing in those countries, and I came to the conclusion that both invasions were illegal according to U.S. and international law.

We have destroyed nations, killed leaders, raided homes, tortured, kidnapped, lied, and manipulated not just citizens and leaders of our enemies, but of our allies as well.

I could not, in good conscience, continue to serve in the U.S. Army.

The U.S. military does not offer a discharge for someone who believes they are being asked to take part in an illegal war, but believes appropriate force is occasionally necessary.

I had to choose between ignoring my beliefs and leaving the military illegally. For me, the correct path was clear: I had to leave.

It is perhaps appropriate that I am applying for asylum in Germany, where the Nuremburg trials took place 60 years ago. One of the main things that were established during these trials was that one cannot defend one’s actions by claiming to have merely been following orders.

If I had stayed in the U.S. Army and continued to participate in the wars in Iraq and Afghanistan, I could not legally argue that I was just doing my job. Here in Germany it was established that everyone, even a soldier, must take responsibility for his or her actions, no matter how many superiors are giving orders.

I recognize that the U.S. military could try to charge me with desertion with intent to shirk hazardous duty during a time of war. If I were to be found guilty of such a crime, U.S. military regulations state they have the right to convict me with a penalty of death. Nevertheless, I made the decision that I believe is right.

There have been many Germans who have called the wars in Iraq and Afghanistan illegal and immoral. It is only logical to suggest then that the soldiers who participate in these wars are also committing illegal and immoral acts.

The question now is whether Germany will grant asylum and stand with those soldiers who refuse to take part in these wars.

Barack Obama will become president of the United States in January. He campaigned with a message of change and has stated he wishes to end the Iraq War. He has repeatedly stated that as president he will move the troops from Iraq into Afghanistan.

However, this does not translate into sympathy for those who refuse to take part in an illegal war. I believe no pardon or amnesty will be given before both conflicts have ended. Furthermore, fellow AWOL Army soldier Robin Long was recently deported from Canada to the United States, where he now sits in military prison.

Mr. Obama never stated an intention to reversing the Bush Doctrine, nor has he stated any intention to bring the Bush administration to justice for their part in these criminal activities.

Mr. Obama’s silence on these issues speaks volumes as to his current disposition toward those who refuse to fight.

If you have any questions please feel free to contact Tim Huber from the Military Counseling Network and Rudi Friedrich from Connection e.V..

Military Counseling Network
Hauptstraße 1
69245 Bammental
Tel.: 06223, 47506
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Connection e.V.
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63065 Offenbach
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Criminali di guerra




A proposito di crimini di guerra e di criminali, mi è venuto in mente il sito http://www.criminidiguerra.it da cui ho estratto pezzo di un articolo scritto sul perché, subito dopo la seconda guerra mondiale, non abbiamo fatto molto per farci consegnare gli autori dei crimini contro la popolazione civile.
Da un paese così "realista" e "pragmatico" nella coscienza dei suoi "dirigenti" politici, potete aspettarvi qualcosa di diverso da una connivenza omologante verso lo stato d'Israele?



"11 settembre 1946. In una lettera al Capo della Commissione Alleata Ammiraglio E. W. Stone, in risposta ad una sua in data 2 maggio 1946, il Presidente del Consiglio De Gasperi scrive che “la Commissione ha redatto un elenco di quaranta nomi di militari e civili, contro i quali può essere elevata l'accusa … di essere venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell'umanità”.

23 ottobre 1946. Un primo comunicato della commissione d'inchiesta indicava i nomi di sei inquisiti: i generali Roatta, Robotti e Magaldi, i ten. col. Sorrentino e Caruso, e l'ambasciatore Bastianini.

13 dicembre 1946. Un secondo comunicato della commissione indicava altri otto nomi (fra cui i generali Pirzio Biroli, Gambara e Coturri, e inoltre Giunta e Grazioli.

Dal gennaio al maggio 1947 vennero emessi altri comunicati che indicavano in una ventina gli inquisiti deferibili al tribunale militare per crimini di guerra.

Nell'archivio Gasparotto sono conservate tre liste di lavoro della commissione d'inchiesta in cui sono indicati i nomi di militari e civili accusati da paesi esteri di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità:

Situazione al 25 gennaio 1947 12 gennaio 1948 23 marzo 1948
Deferiti 13 28 29 (+1)
Discriminati 23 111 133
Sospesi 7 2 6
Totale 43 141 168

Quindi la lista smentisce i dati indicati da De Gasperi a Stone, ridimensionando le cifre.
Come indica la tabella i quaranta nomi in realtà si riducono a tredici presunti criminali di guerra da deferire al tribunale militare.

La commissione in quasi due anni di lavoro (maggio 1946 - marzo 1948) ha giudicato deferibili al Tribunale militare solo 29 inquisiti (su 168 accusati esaminati a cui vanno aggiunti il personale del campo di concentramento di Arbe, ufficiali, sottufficiali e truppa delle divisioni "Re" e "Zara").

In realtà al gennaio 1948 i criminali di guerra la cui consegna era richiesta al Governo italiano da paesi esteri erano 295, che devono essere aggiunti ai 1697 compresi nelle liste delle Commissioni Onu per i crimini di guerra.

Quindi a fronte di 1992 casi segnalati dai paesi che avevano subito l'accupazione militare italiana e dagli Alleati, la Commissione ne valutò, in base ai documenti citati, 168 e non prese in considerazione le azioni svolte dai militari italiani in Africa (Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia) dove vennero usate bombe a gas e venne praticata una durissima repressione, attraverso la deportazione in campi di concentramento, torture ed esecuzioni sommarie anche nei confronti dei civili.

Le conclusioni del Governo

Alla luce di quanto riportato e dei rivolgimenti politici avvenuti tra il 1947 ed il 1948, il processo contro i 29 deferiti al Tribunale militare non fu mai celebrato. Non solo per i noti motivi (la Guerra fredda, per cui si ripuliva il passato di nazisti e di fascisti per utilizzarli nella lotta al blocco sovietico), ma anche perché da parte degli alti generali italiani (per la maggior parte, i medesimi che comandavano l'esercito monarchico agli ordini del Comandante Supremo Mussolini) non vi era nessuna intenzione di condannare i propri colleghi, seppur responsabili di provati crimini efferati.

Infatti l'istruttoria per almeno 26 deferiti dalla Commissione d'inchiesta venne completata entro il gennaio 1948, ma d'altro canto lo stesso Governo italiano era conscio della non opportunità di svolgere processi contro presunti criminali di guerra italiani contemporaneamente a quelli contro i presunti criminali tedeschi (che stavano iniziando in Italia nei primi mesi del 1948), proprio perché “le accuse che noi facciamo ai tedeschi sono analoghe a quelle che gli jugoslavi muovono contro imputati italiani”.

Quindi, come scrisse il 20 agosto 1949 il Direttore Generale degli Affari politici del Ministero degli Affari Esteri, conte Vittorio Zoppi, all'ammiraglio Franco Zannoni, capo gabinetto del ministro della difesa, “la Commissione d'inchiesta che … non doveva dare l'impressione di scagionare ogni persona esaminata …selezionò un certo numero di ufficiali che furono rinviati a giudizio … Fu spiccato nei loro confronti mandato di cattura, ma fu dato loro il tempo di mettersi al coperto … ciò fu fatto con il preciso e unico intento di sottrarli alla consegna [agli jugoslavi ndr]… Ottenuto questo risultato e venuto meno le ragioni di politica estera … il Ministero degli Affari esteri considera la questione non più attuale”.

L'epilogo.

Le conclusioni della questione sono custodite gelosamente negli archivi del Ministero della difesa, ma si può presumere, alla luce dei documenti analizzati, che i mandati di cattura siano stati ritirati ed anche i militari rinviati a giudizio per crimini di guerra abbiano potuto poi concludere (per la maggior parte) la propria carriera nell'esercito dell'Italia democratica e antifascista.

Il Governo italiano, ex-ministri e gli alti quadri militari della neonata Repubblica italiana erano consci dei crimini operati dai militari italiani nel corso delle guerre coloniali e nel II conflitto mondiale e ne avevano le prove documentali.
Ma il Governo ha operato per evitare non solo di consegnare, ma anche di giudicare i presunti colpevoli delle stragi.
A questo scopo consapevolmente ha rinunciato al diritto/dovere di richiedere la consegna e di perseguire i militari tedeschi accusati di strage in Italia.
Infatti richiedere la consegna di numerosi presunti criminali tedeschi per processarli in Italia, avrebbe voluto ammettere il principio e quindi non potersi rifiutare di consegnare i propri presunti criminali di guerra ad altri paesi richiedenti.
Lo afferma l'ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, con la piena condivisione dei dirigenti del ministero stesso, in una lettera al Ministero degli Affari Esteri il 7 gennaio 1946: “… Il giorno in cui il primo criminale tedesco ci fosse consegnato, questo solleverebbe un coro di proteste da parte di tutti quei paesi che sostengono di aver diritto alla consegna di criminali italiani”.

Quindi la giustizia sta ancora aspettando, non solo per le vittime delle stragi tedesche, ma anche per tutti gli innocenti trucidati o mandati a morire da quei generali italiani primi protagonisti dell'aggressiva vocazione colonialista dello stato italiano."

mercoledì 21 gennaio 2009

I disastri della finanza

I quattro modi per tagliare il debito secondo il corriere della sera.


Quale sarà la durata della recessione innescata dalla crisi bancaria globale? Quante persone saranno licenziate? Torneremo agli anni Trenta, quando la recessione degenerò nella Grande Depressione? Fin dove si spingerà la mano pubblica nel turare le falle della finanza privata già colpita dal suo primo suicidio eccellente, quello del miliardario tedesco Adolf Merckle che, travolto dalle speculazioni fallite, si è gettato sotto un treno? Come ne usciremo, alla fine? Nell’ottobre scorso, la Banca d’Inghilterra aveva stimato un impegno di 7 mila miliardi di dollari a carico dei Tesori nazionali per impedire il tracollo dei sistemi bancari. A novembre, soltanto gli Usa hanno aggiunto nuovi programmi d’acquisto di mutui tossici e obbligazioni illiquide per 800 miliardi da eseguire quest’anno. Il 13 gennaio, intervenendo alla London School of Economics, il governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha avvertito che i costi dei salvataggi bancari in giro per il mondo sono destinati a crescere ancora. Nell’Occidente avanzato, produzione, commerci e servizi regrediscono intrecciando in una spirale perversa gli effetti della crisi finanziaria a quelli, ancor più drammatici, della crisi dell’economia reale. La Merrill Lynch si aspetta un arretramento dell’economia americana del 2,3% quest’anno e una parvenza di ripresa, non più dello 0,5%, nel 2010, mentre vede Eurolandia a meno 0,6% nel 2009 e a più 1,1% l’anno prossimo. Ma quando i credit default swaps sulle obbligazioni del Tesoro della Corona britannica, il massimo della sicurezza, tripla A per le agenzie di rating, pagano 108 punti base e McDonald’s, una sola A, paga 57 punti base, ogni previsione è un numero al lotto. Le domande sul futuro, pur naturali e diffuse, sono destinate a restare senza risposte attendibili, almeno per un po’. Al contrario, le esperienze fatte, se indagate, possono offrire interessanti suggestioni.

Per cominciare, bisogna chiedersi com’è la finanza globale che è andata spavaldamente incontro al disastro, convinta che la rappresentazione dei risultati del lavoro contenuta nei suoi complicatissimi titoli fosse reale e consistente e non, invece, virtuale e drogata. Secondo il McKinsey Global Institute, nel 2007 la ricchezza finanziaria globale (azioni, obbligazioni private e pubbliche e depositi bancari) valeva 196 mila miliardi di dollari, 3,6 volte il prodotto interno lordo del pianeta. Pur scontando la svalutazione della moneta Usa, nell’ultimo anno «buono » tale ricchezza in larga misura cartacea era aumentata del 12% contro un incremento medio annuale che, a partire dal 1990, si aggirava sul 9%. A trainare questa espansione sempre più marcata dei valori, in un mondo dove il denaro, equivalente universale, circolava sempre più liberamente, sono stati il settore privato e le economie emergenti. Nel 1990, le obbligazioni statali rappresentavano il 18,6% delle attività finanziarie del mondo; diciotto anni dopo erano scese al 14,3%. Nel 2000 erano 11 i Paesi con attività finanziarie pari a 3,5 volte il prodotto interno lordo; nel 2007 gli 11 erano diventati 25, comprendendo nel novero anche giganti come Cina e Brasile.

Gli ormai frenetici flussi finanziari tra un Paese e l’altro sono arrivati a 11.200 miliardi di dollari, con un incremento del 19% rispetto al 2006, e tra questi flussi la parte del leone la fanno i depositi e i prestiti sull’onda dell’internazionalizzazione di banche, assicurazioni, hedge funds e private equity. Privatizzazioni e globalizzazione hanno dunque favorito la finanziarizzazione dell’economia alimentata dal debito: un debito cross-border che, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, era per il 65% con scadenza inferiore ai 12 mesi, e dunque fragile perché facilmente revocabile. Particolare interessante, la dinamica del debito èmolto forte nei paesi più avanzati, con l’eccezione della Germania, mentre la crescita delle attività finanziarie delle economie emergenti dipende per lo più dal collocamento in Borsa delle loro grandi aziende più o meno a partecipazione statale.

Negli Stati Uniti, epicentro di tutto, la bolla finanziaria è stata gonfiata della crescita prolungata dei prezzi delle azioni e delle case nonché dall’aumento del deficit della bilancia commerciale che rappresenta la faccia imperiale dell’aumento del prodotto interno lordo pro capite (noi consumiamo e voi pagate). Due economisti americani, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, hanno constatato come queste tendenze si siano sempre manifestate nell’incubazione delle principali crisi bancarie degli ultimi trent’anni: Spagna (1977), Norvegia (1987), Finlandia e Svezia (1991), Giappone (1992). Negli Stati Uniti, semmai, non si è registrata l’impennata del debito pubblico prima della crisi, ma questo potrebbe spiegarsi con l’accortezza di nasconderne una parte sotto etichette formalmente private come Fannie Mae e Freddie Mac a dimostrazione che il gioco delle tre carte non si fa soltanto a Napoli. Se dunque l’incubazione è stata simile, quali sono le costanti negli esiti delle crisi?

Partiamo dal valore delle case, che da confortevole rifugio sono diventate una trappola mortale. Nelle 22 crisi esaminate da Reinhart e Rogoff, la caduta dei prezzi degli immobili dai massimi ai minimi al netto dell’inflazione èmediamente del 35,5% al netto dell’inflazione e il declino dura 6 anni. Più pronunciato ma meno persistente è il crollo reale delle quotazioni azionarie: mediamente è del 55,9% e si prolunga per 3,4 anni. Il tasso di disoccupazione aumenta di 7 punti percentuali e il declino va avanti per 4,8 anni. Queste tendenze parziali si riflettono in un andamento del Pil, che arretra di 9,3 punti e torna a crescere dopo un anno e nove mesi. Nel suo ultimo World Economic Outlook, il Fondo monetario internazionale ha addirittura comparato 113 episodi di crisi finanziaria in 17 paesi svi luppati, sempre negli ultimi trent’anni. E’ emerso che solo 31 volte le crisi hanno generato recessioni vere e proprie e solo in un numero ancor minore di casi, 17 volte per la precisione, le recessioni sono state preparate da una crisi bancaria. In questi ultimi casi la durata e la profondità delle crisi sono state più che doppie rispetto alle recessioni normali (7,6 trimestri di durata media contro 3,1 trimestri; perdita cumulata di Pil del 19,8% rispetto a un 5,4% se non c’è crisi bancaria). Nessuna di queste crisi, tuttavia, ha avuto l’estensione geografica di quella in corso. Negli Stati Uniti, in 18 mesi di crisi finanziaria, l’indice Dow Jones ha bruciato il 40%, i prezzi delle abitazioni il 28% e nel 2008, anno nel quale complessivamente il Pil è aumentato di circa un punto, oltre 2,5 milioni di persone hanno perso il lavoro. Quali saranno le nuove percentuali a metà 2010 quando, a dar retta a Merrill Lynch piuttosto che al Fondo monetario internazionale l’andamento del Pil dovrebbe invertire la tendenza?

La reazione di Barack Obama si fonda su un aumento della spesa, che si aggiunge al costo delle manovre dell’ultimo Bush. Stiamo parlando di 800 miliardi di dollari di stimolo all’economia oltre la cifra analoga che la Federal Reserve è già impegnata a spendere a sostegno delle banche. Il presidente eletto eredita un Paese che ha un debito totale (imprese, famiglie, settore finanziario ed esteri) di 51.849 miliardi di dollari a fronte di prodotto interno lordo di 14.412. Un debito pari al 359,7% della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2009 la componente pubblica di questo debito è destinata a aumentare allo scopo, se non altro, di contenere quella privata consentendo a famiglie e imprese di sopravvivere. E già oggi, a seconda di come si effettua il conteggio, il debito pubblico americano avvicina o addirittura supera il prodotto interno lordo. Come segnalano Reinhart e Rogoff, del resto, nei tre anni successivi alle crisi bancarie passate il debito pubblico è aumentato dell’ 86%, perché non è con le pur necessarie manovre sui tassi, effettuate dalle banche centrali, che si superano queste crisi così gravi, ma con la spesa pubblica fatalmente finanziata con il debito pubblico. Se però si guarda all’esperienza degli Stati Uniti della Grande Depressione si dovrà andare oltre le rilevazioni dei due economisti. Perché quando, nel 1941, il prodotto interno lordo espresso in moneta corrente tornò finalmente ai livelli pre-crisi del 1929, il debito totale americano si era dimezzato. E tutti sanno che esistono solo quattro modi per tagliare drasticamente un debito: l’insolvenza, la bancarotta, l’inflazione e la cancellazione del debito mediante un Giubileo di biblicamemoria come ironicamente ricorda Niall Ferguson sul Financial Times o attraverso la conversione dei debiti in azioni, come suggeriva Guido Carli all’Italia degli anni Settanta.

Massimo Mucchetti
17 gennaio 2009

Il problema palestinese è nostro e di chi ha appoggiato i sionisti

Partiamo dalla sezione di Wikipedia che sviluppa il tema del sionismo e che, tra le note, avverte che la questione non la si riesce a trattare in modo neutrale.
Scompaginando un po' la cronologia dei capitoli iniziamo da questo:

Il diritto dei profughi palestinesi

"Lo Stato di Israele, che attualmente ha più di sette milioni di abitanti, riconosce fino ad oggi il diritto di qualsiasi ebreo del mondo di emigrare in Israele, semplicemente richiedendolo, e di ricevere la cittadinanza non appena arrivato. L'atto di immigrazione in Israele nel caso di un ebreo viene chiamato Aliyah, che in ebraico significa "ascesa". Israele ha sempre negato, invece, il ritorno ai profughi palestinesi, sia a quelli della guerra del 1948 che a quelli della guerra del 1967. Il conte Folke Bernadotte, incaricato dalle Nazioni Unite e che agiva per il ritorno dei profughi palestinesi nelle loro case, fu assassinato dal gruppo Lehi; Israele arrestò appartenenti alla banda, ma furono subito rilasciati.

Il diritto dei profughi a tornare in patria è sancito dall'articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Di recente, è stato applicato ai fuggiti nelle guerre interetniche in Rwanda e del Burundi.[10] e agli scampati alla guerra nell'ex Jugoslavia[11] Non viene applicato invece ai profughi dalla terra poi diventata Israele, molti dei quali vivono tuttora in campi in Cisgiordania, territorio sotto la responsabilità israeliana fin dal giugno del 1967.

Durante gli anni '50 e gli anni '60, moltissimi ebrei provenienti dal Nord Africa e dal Vicino Oriente emigrarono in Israele, in seguito all'espulsione, di diritto o di fatto (confisca dei beni) nei paesi di origine. Durante gli anni '90, è emigrato in Israele circa un milione di persone dall'ex-Unione Sovietica. Molti di loro hanno solo dei tenui legami familiari con l'Ebraismo, e non sono mancati i casi di praticanti del Cristianesimo ortodosso. Si suppone che molti di essi siano emigrati in Israele per sfuggire dalle condizioni economiche e sociali molto dure dei paesi di origine. Negli ultimi anni, c'è stata anche un'immigrazione crescente di clandestini provenienti dall'Africa e dall'Asia.

Israele si auto definisce uno "Stato Ebraico". Le due lingue ufficiali sono l'Ebraico, una lingua che è stata completamente rivitalizzata dopo più di due millenni di uso solamente liturgico, e l'Arabo. Nella pratica, è molto più usato l'inglese dell'arabo. Ora è diffuso anche il russo.

La società è divisa su numerosi temi tra la componente religiosa e quella laica. I servizi di trasporto pubblico (con l'eccezione di Haifa) non funzionano di sabato e nelle altre feste ebraiche.[12] Il potere degli ebrei ultra ortodossi è in aumento: sono in alcuni casi (raramente corretti) a imporre la separazione fra uomini e donne su autobus in servizio pubblico."

Ma come ci sono arrivati in Palestina i sionisti?

"Il fondatore del Sionismo è oggi considerato Theodor Herzl, un giornalista austro-ungarico ashkenazita. Herzl avrebbe sviluppato la sua idea a seguito dell'affare Dreyfus, sviluppatosi nel 1894. Nel 1897 Herzl organizzò il primo Congresso Sionista in Svizzera, e creò l'Organizzazione Sionista Mondiale.

Le idee di Herzl si inseriscono in un movimento migratorio ebraico già in atto, causato, in Russia, dai pogrom degli anni 1881-1882. Secondo dati del 1930, dal 1880 al 1929 emigrano dalla Russia 2.285.000 ebrei, e, di questi, 45.000 in Palestina. La stragrande maggioranza preferisce recarsi altrove: 1.930.000 scelgono le Americhe, 240.000 l'Europa, i restanti l'Africa e l'Oceania. Dall'Austria, dall'Ungheria e dalla Polonia emigrano, dal 1880 al 1929, in 952.000: 697.000 nelle Americhe, 185.000 in altri Paesi europei, 40.000 in Palestina.
Proporzioni analoghe si riscontrano fra i migranti provenienti da altri Paesi. In totale, durante questi decenni migrano 3.975.000 ebrei: 3.250.000 nelle Americhe (di cui 2.885.000 negli Stati Uniti), 490.000 in Europa occidentale e centrale, e solo 120.000 in Palestina.[1][2]

L'idea di creare uno Stato ebraico circola dal 1880, ("Hibbat Zion"). Alcuni dei promotori di questa idea volevano fondare lo Stato nella storica terra d'Israele, chiamata anche Palestina, dove, secondo la Bibbia, vi erano stati i regni di Davide e di Salomone; il sogno è quello di creare uno stato puramente ebraico, in cui l'antisemitismo sia assente per definizione.

Per questa terra non fu subito scelta la Palestina: c'era anche chi proponeva di creare uno Stato ebraico in altre parti del mondo, ad esempio in Amazzonia o in Uganda, ma l'opzione di gran lunga più popolare restava la Palestina, all'epoca governata dall'Impero Ottomano.

A partire dal 1882, Edmond James de Rothschild divenne uno dei principali finanziatori del movimento sionista e acquistò il primo sito ebraico in Palestina, l'attuale Rishon LeZion. Nel 1924 fondò la Palestine Jewish Colonization Association (PICA), che comprò più di 125.000 acri (560 km2) di terreno.

La seconda ondata (circa 30.000 persone) parte dalla Russia per la Palestina fra il 1904 e il 1914: c'erano stati pogrom dal 1903 al 1906. Alcuni dei nuovi colonizzatori erano spinti da ideali socialisti e crearono dei Kibbutz, delle comunità organizzate secondo criteri collettivisti e comunistici, in cui la popolazione viveva dell'agricoltura. Ma il collettivismo e gli ideali comunistici erano riservati agli ebrei: vigendo la politica del 'lavoro ebraico', i kibbutz non accettavano (e non accettano) fra i loro membri dei palestinesi.

Con i fondi sionisti, e principalmente del Fondo nazionale ebraico, si acquistano terre dichiarate inalienabili da cui è esclusa la manodopera indigena; nasce una nuova nazione, con una propria lingua ed un'economia chiusa, da cui gli arabi sono esclusi. Altri si sistemano nelle città o ne fondarono di nuove: caratteristico è il caso di Jaffa e Tel Aviv, Tel Aviv era infatti un quartiere di Qoffa, ma il massiccio insediamento ebraico crebbe fino a far diventare l'antica (millenaria!) città di Qoffa un sobborgo della nuova Tel Aviv.

I chaluzim, i "pionieri" dell'esodo sionista, non portarono in Palestina solo la loro forza lavoro, la loro famiglia, la loro cultura, ma importarono l'idea europea di "Nazione". Tra gli immigrati ebrei si diffuse anche l'uso della lingua ebraica, la quale, relegata all'ambito religioso da duemila anni, non era più usata quotidianamente.

In piena Prima guerra mondiale il Regno Unito si impegnava, con una lettera del ministro degli esteri a Lionel Walter Rothschild, membro del movimento sionista inglese, a mettere a disposizione del movimento sionista dei territori in Palestina, in caso di vittoria. Il documento porta il nome di Dichiarazione Balfour 2 novembre 1917. Nel 1922 il controllo della regione passò all'Impero Britannico, che chiese e ottenne dalla Società delle Nazioni un Mandato sulla Palestina, che includeva anche l'odierna Giordania. La popolazione araba in Palestina aumentò per l'arrivo di immigrati dai paesi circostanti, che vennero per lavorare, spinti dai salari più elevati di quelli dei loro paesi d'origine.


In sintesi: una immigrazione finanziata ed incentivata con l'acquisto di pezzi di territorio che si è sovrapposta alla presenza degli abitanti del luogo ed a quanti arrivavano da altri stati arabi.

I sionisti sulla Palestina hanno questa posizione:

È importante sottolineare il fatto che, mentre i racconti di una Palestina disabitata abbondano, non esistono resoconti che affermino il contrario. Non c’è una sola testimonianza scritta dell’epoca che dimostri una presenza araba significativa in Palestina, o che menzioni un ‘popolo palestinese’ residente.E’ per questo motivo che Golda Meir, primo ministro israeliano, affermò nel 1969 che: “Non c’è mai stata una cosa come i ‘palestinesi’. Quando mai ci fu un popolo palestinese indipendente con uno stato palestinese? Questo fu la Siria meridionale prima della Prima Guerra Mondiale, e poi fu una Palestina che comprendeva la Giordania. Non fu come se ci fosse un popolo palestinese in Palestina, che si considerava ‘popolo palestinese’, poi noi arrivammo e li cacciammo, portando via il loro paese. Loro non esistevano." (Golda Meir, Primo Ministro Israeliano - Sunday Times, 15 Giugno 1969)"

Posizione che deve conciliarsi con altre affermazioni dell'autore che, nello sforzo di non voler dare una identità alle popolazioni autoctone, scrive:

Come dimostrato dallo studio demografico di Justin McCarthy, (‘La popolazione della Palestina’), lo studio di Arieh Avneri (‘The Claim of Disposession’), il libro-ricerca di Joan Peters (‘From Time Immemorial’) ed altri, la popolazione araba dell’area registrò un enorme sviluppo SOLO durante questo periodo, cioè IN CONTEMPORANEA al ritorno degli ebrei in Palestina. Tra il 1514 e il 1850, la popolazione araba di questa regione era rimasta più o meno stazionaria, circa 340.000 abitanti. Essa cominciò improvvisamente ad aumentare dopo il 1855.

Ad esempio, gli egiziani guidati da Ibrahim Pasha giunsero in massa nell’800, cacciando letteralmente gli unici (oltre agli ebrei) che davvero vivevano in Palestina ‘da tempo immemorabile’, cioè i Drusi. Moltissimi arabi vennero in Palestina dalla Siria, dalla regione di Hauran. Soltanto nel 1831, ben 6.000 egiziani si stabilirono ad Acco (città che oggi dichiarano essere araba da millenni!). Secondo il rapporto ‘British Palestine Exploration Fund’ del 1893, gli egiziani avevano da poco ripopolato anche Jaffa, diventandone la maggioranza. L’immigrazione araba continuò ad aumentare durante la prima Guerra Mondiale.

Ora del censo del 1922, la popolazione araba era quasi raddoppiata arrivando a 589.177, fra cui 62.500 beduini.

Il censo britannico del 1931 (spesso citato da fonti anti-sioniste) mostra la popolazione araba a 759.700 unità residenti, compresi i beduini, accanto ad una popolazione ebraica di circa la metà. Il punto importantissimo che però viene omesso dal censo è il fatto che la maggior parte di questi arabi erano arrivati in Palestina da non più di 60 anni.

Gli inglesi tentarono di spiegare questo improvviso aumento di popolazione attribuendolo all’incremento naturale del nucleo arabo pre-esistente. Il punto è che la crescita demografica naturale non avrebbe mai potuto sostenere un simile aumento, come vedremo fra poco. Quindi l’unica spiegazione possibile è che molti arabi siano immigrati in Palestina illegalmente.


Quindi:

-anche se più numerosa (lo è tra l'altro sempre stata) la popolazione araba lo è diventata perché immigrata illegalmente da altri stati arabi (!!), in un territorio amministrato prima dall'impero Ottomano e poi dagli inglesi ed in cui gli ebrei hanno costituito, da sempre, una minoranza religiosa.

-per questi (arabi ed arabi ebrei) parliamo, in ogni caso, di popolazione residente araba in maggioranza non ebrea.

-nonostante questi fatti: i palestinesi in quanto tali non sono mai esistiti ,quindi i sionisti hanno occupato un vuoto sia fisico che giuridico.Hanno inventato uno stato non cacciando un popolo inteso come tale ma una massa di pastori senza identità certa.Più o meno le stesse brillanti e nobili motivazioni che giustificavano l'apartheid in Sudafrica.O quello che i fascisti raccontavano nella loro propaganda sull'Abissinia senza strade ed abitata solo da tribù incolte e primitive.

Assumiamo per un attimo che questa cosa sia vera fino in fondo e non ricostruita in modo artificioso (la Palestina che non esiste).Possiamo dire che in Palestina fino alla fine dell'800 c'era una popolazione prevalentemente di origine araba con una presenza ebraica, per lo più colonie.

Lo sviluppo massiccio della popolazione ebraica residente lo si è avuto in coincidenza della fine della seconda guerra mondiale e grazie ad ondate migratorie che hanno avuto origine in Europa. Fine 800, primi del 900 e seconda metà del 900.

Di cosa è quindi il frutto la nascita dello stato d'Israele se non dell'afflusso massiccio di europei di religione ebraica?

Se il processo migratorio ha avuto quello sviluppo, non c'è da meravigliarsi se i palestinesi e gli arabi vedono la nascita di quello stato come una forzatura che non è altro che la coda avvelenata di ciò che noi occidentali siamo stati in grado di sviluppare in Europa negli ultimi 150 anni di storia.Dei nostri conflitti e delle nostre persecuzioni.

Prodotto, lo stato israeliano, di una dottrina (quella sionista) che fa dell'appartenenza ebraica l'elemento discriminante per poter avere diritti da quelle parti.

Ci si meraviglia se, nel 48, furono proprio gli stati arabi e coloro che vivevano lì a non accettare la risoluzione dell'ONU?

Possiamo dire che quello stato è lo sviluppo di un processo storico insito e prodotto dalla storia delle popolazioni presenti lì da secoli?

Ma per venire a noi che futuro potrà mai avere uno stato palestinese dove secondo un commentatore:

- ma ve lo immaginate uno stato dove per andare da un posto all'altro ci vuole il passaporto?
-Uno stato privo di un tessuto industriale, agricolo e commerciale?
-Uno stato dove le merci per spostarsi dai luoghi di produzione (ammesso che ne esista qualcuno) a quelli di commercializzazione devono sottostare all'arbitrio del potentissimo, arcigno e scontroso vicino?
-Uno stato che non produce energia e dove, quindi, quando il povero palestinese deciderà di accendere la lampadina dovrà pregare di far alzare dal letto per il verso giusto il gestore ebreo della più vicina centrale elettrica?
-Uno stato ove la erogazione dell'acqua è nel più completo arbitrio del nemico.



martedì 20 gennaio 2009

YEHOSHUA: UN INSULTO A SEI MILIONI DI MARTIRI

(commento alla lettera di Abrham B. Yehoshua, pubblicato dalla Stampa del 18/01/2009)

Abrham. B. Yehoshua. “Caro Gideon,

negli ultimi anni ... Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera..."


Hamas continua a sparare razzi anche e soprattutto perché Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, definita nel 2007 dal sudafricano John Dugard, Special Rapporteur per i Diritti Umani in Palestina dell'ONU, "Apartheid... da sottoporre al giudizio della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja". Perché nell'agosto del 2006 la Banca Mondiale dichiarava che "la povertà a Gaza colpisce i due terzi della popolazione", con povertà definita come un reddito di 2 dollari al giorno pro capite, che è il livello africano ufficialmente registrato. Perché appena dopo le regolari e democratiche elezioni del gennaio 2006 con Hamas vittoriosa, Israele inflisse 1 miliardo e 800 milioni di dollari di danni bombardando la rete elettrica di Gaza e lasciando più di un milione di civili senza acqua potabile. Perché nel 2007 l'ex ministro inglese per lo Sviluppo Internazionale, Clare Short, dichiarò alla Camera dei Comuni di Londra "sono scioccata dalla chiara creazione da parte di Israele di un sistema di Apartheid, per cui i palestinesi sono rinchiusi in quattro Bantustan, circondati da un muro, e posti di blocco che ne controllano i movimenti dentro e fuori dai ghetti (sic)". Ecco perché. Perché sono 60 anni che Israele strazia i palestinesi con politiche sanguinarie, razziste e fin neonaziste.

Nella foto: Abrham B. Yehoshua

A.B.Y. "Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare."

Arafat riconobbe Israele nel 1993, agì fermamente per reprimere Hamas (come testimoniò Ami Ayalon, ex capo dei servizi segreti Shab'ak israeliani, nel 1998) e cosa ottenne? Barak, Clinton e poi Sharon lo distrussero. Hamas ha dichiarato ufficialmente nel luglio del 2006 con una lettera al Washington Post di riconoscere il diritto degli ebrei all'esistenza in Palestina fianco a fianco dei palestinesi. Nessun media italiano o europeo ha ripreso la notizia. Nessuno.

A.B.Y. "... I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l’occupazione israeliana, cessate il fuoco..."

Respinto l'occupazione? Sono in una gabbia che li affama, che li fa morire ai posti di blocco, che gli nega l'essenziale per vivere. Di nuovo Dugard: "A tutti gli effetti, a seguito del ritiro israeliano, Gaza è divenuta un territorio chiuso, imprigionato e ancora occupato".

A.B.Y. "Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l’attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi seguaci (e malauguratamente, al momento, è questo l’unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un’impresa assurda e irrealizzabile..."

Questo è il razzismo di questi assassini vestiti da colombe. Vogliono 'educare' gli 'untermenschen' arabi a frustate, "fargli capire", come usava ‘far capire' nei campi di cotone della Louisiana 200 anni fa o nel ghetto di Varsavia, pochi decenni fa. 'Fargli capire' le cose ammazzando i loro bambini? Le loro donne? Questo si chiama massacro, è un crimine contro l'umanità che viola le Convenzioni di Ginevra e i Principi di Norimberga. Questo Abrham B. Yehoshua è un mostro, e lui e i suoi colleghi non hanno appreso alcunché dal nazismo, anzi, hanno solo appreso come replicarlo.

"Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio."

Su una porzione del suo territorio... Non c'è limite all'abominio intellettuale di questo scrittore. Gli 'untermenschen' arabi devono essere grati di poter fare la fame su un fazzoletto di terra privo di ogni sbocco economico/commerciale e che è una frazione di quel 22% delle loro terre che gli è rimasto dopo che Israele gli ha rubato il 78% a forza di massacri e pulizia etnica.

"Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni..."

Come aver detto agli etiopi nel 1984: "Se imparaste a coltivare la terra invece che chiedere l'elemosina all'ONU...".

Questo Abrham B. Yehoshua è, lo ribadisco e me ne assumo la responsabilità, un mostro. Lo è in forma più disgustosa di Sharon, di Olmert, della Livni, poiché traveste la sua perfidia disumana da 'colomba'.

L'ipocrisia della tragedia israelo-palestinese è arrivata a livelli biblici di disgusto. E ricordo, per tornare in Italia, la posizione dei nostri intellettuali di sinistra, ‘colombe’ anch’essi, come esplicitata sul sito http://www.sinistraperisraele.it/home.asp?idtesto=185&idkunta=185, dove campeggia una commemorazione di Uri Grossman, figlio dell’altra ‘colomba’ israeliana di chiara fama, David Grossman, ucciso durante l’invasione israeliana del Libano del 2006. La morte di un figlio è sempre una tragedia immane, e quella morte lo è nel suo aspetto privato. Non oserei profferire parola su questo.

Ma vi è un aspetto pubblico di essa, che stride e che fa ribollire la coscienza: Uri Grossman era un soldato di un esercito invasore, criminale di guerra, oppressore da 60 anni di un intero popolo, e che in Libano ha massacrato oltre 1000 esseri umani innocenti, dopo averne massacrati 19.000 in identiche circostanze nel 1982 e molti altri nel 1978. Uri Grossman era una pedina di una impresa criminale, ma venne commemorato su tutti i media italiani, e ancora lo è sul sito dei nostri ‘intellettuali colombe’.

Dove sono le commemorazioni della montagna di Abdel, Baher, Fuad, Adnan, la cui vita spezzata a due anni, a tredici anni, a trent’anni, e senza aver mai indossato la divisa di un esercito criminale di guerra, ha lasciato il medesimo strazio e il medesimo buio di vivere di “papà, mamma, Yonatan e Ruti” Grossman? Dove sono? Dove?

"Far capire"... "malauguratamente è l'unico modo". Queste parole, Abrham B. Yehoshua, questi 'intellettuali' traditori, la difesa del sionismo e delle condotte militari di Israele dal 1948, sono un insulto a sei milioni di martiri ebrei dell'Olocausto nazista. Lo scrivo, lo dico e mi chiamo Paolo Barnard.

Paolo Barnard
Fonte: www.paolobarnard.info
Link: http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=93

lunedì 19 gennaio 2009

Come Dayan raccontò la guerra contro la Siria nel 68


Questo è un reportage del corriere della sera dal Golan, scritto nel 1998. Ci troverete molte cose che fanno capire meglio di tanti discorsi come si applica l'espansionismo sionista, per quali motivi e con quali sotterfugi. A futura memoria in attesa del prossimo reporatge che tra 20 anni illuminerà i vari "commentatori" sulla banale verità di un regime che nel suo DNA è l'esempio di un nuovo fascismo.

A Quneitra, capitale fantasma dell'altopiano siriano in parte occupato da Israele nel '67, la comunita' araba combatte con le parole per mantenere il rapporto con il passato
REPORTAGE I SALTATORI DI MURI
Il megafono del dolore sul Golan diviso Ogni venerdi', nella Valle delle grida, le famiglie spezzate urlano messaggi oltre il filo spinato Soltanto 300 metri tra figli, genitori, fratelli separati. Per riconoscersi serve un binocolo
"Moshe Dayan ammise le pressioni dei coloni per avere la terra"

DAL NOSTRO INVIATO QUNEITRA (Golan) - In questa penosa escursione tra i muri della vergogna rimasti ancora in piedi e le frontiere invalicabili imposte da conflitti politici e rancori regionali, non sarebbe stato possibile ignorare il Golan dove da oltre 30 anni una barriera incappucciata da filo spinato divide in due la comunita' dell'altopiano: siriani gli uni e gli altri. Ma i 23 mila che vivono dall'altra parte abitano le terre occupate da Israele nel '67, durante la Guerra dei sei giorni. L'occupazione fu rapida, anzi fulminea: e altrettanto fulmineamente, i soldati di Dayan ridisegnarono i confini in territorio siriano ed eressero il muro per impedire agli abitanti dei villaggi, diventati loro "sudditi", di fuggire verso i promontori rimasti liberi sotto la bandiera di Damasco. Tornando nella zona dopo circa 10 anni, ho rivisto la stessa scena di allora: una scena che si ripete ogni venerdi' e che le Tv e i giornali continuano a raccontare. La gente (soprattutto donne) arriva dai dintorni e anche da Damasco in mattinata e si assiepa sul ciglio di una collina davanti alla terra di nessuno: 400 metri di prato scosceso, pieno di sterpi, segato, sul fondo, dai rotoli di filo spinato. E subito comincia il lamentoso dialogo, col megafono, tra le famiglie siriane separate. Ci sono soltanto 300 metri in linea d'aria ma non c'e' altro modo per tener vivo un rapporto che puo' essere solo verbale. Un'anziana signora chiama il figlio, una figlia il padre. Sulla collina opposta si vede la macchia bianca di Majdel Chams, uno dei cinque villaggi, su 147, che gli israeliani hanno risparmiato dilagando nel Golan. Col binocolo si possono vedere chiaramente i volti delle persone che urlano dentro il megafono, i veli neri, bianchi, azzurri delle donne. Un uomo di mezza eta' chiama il padre e la madre e anche i quattro fratelli, nati dopo la sua fuga, che non ha mai visto. Uno dei fratelli risponde e lui si fa prestare il binocolo per vedere "come e' fatto". Viene qui una volta al mese, da Damasco. Proprio a causa di questo scambio di messaggi, urlati e vibrati, la terra di nessuno e' stata battezzata (credo dai Caschi blu dell'Onu addetti alla sorveglianza) The Shouting Valley, la Valle delle grida. E il vento che soffia sempre su queste alture contribuisce al nitido trasloco delle voci sopra il muro. Qualcuno, megafonando, presenta ai genitori la ragazza che gli sta vicino e con cui si e' fidanzato. Altri ostentano la bellezza dei bambini di pochi mesi, agitandoli dolcemente sopra la testa. Ogni tanto si sente un'invocazione stentorea a Dio, Allah o akbar, e quel cielo sbiancato dal sole diventa il soffitto etereo di una moschea. Il governatore della provincia di Quneitra, Walid Al - Bouz, racconta che una donna e' morta qualche giorno fa mentre urlava il nome del nipotino. Insomma, uno strazio. Dei 1.860 chilometri quadrati del Golan, 1.200 almeno sono stati occupati da Israele, che non intende ritirarsi perche' - sostiene da sempre - quella fascia di terra rappresenta una sicurezza per i suoi confini e per la propria integrita' territoriale, minacciata e colpita in passato dai missili siriani. Ma non si puo' neanche accantonare il sospetto che non voglia rinunciare a un territorio ricco di sorgenti, da cui sgorgano 3 miliardi e 362 milioni di metri cubi d'acqua all'anno: una ricchezza favolosa per un Paese mediorientale. "L'occupazione del Golan - mi dice il dottor Walid Al - Bouz - ha avuto come conseguenza soprattutto la disintegrazione delle famiglie, e' stata un crimine contro l'umanita', una flagrante violazione dei diritti umani. Si interviene contro la nostra identita' culturale, contro il nostro sistema educativo, contro la lingua: la gente non si puo' riunire, ogni assembramento e' vietato. Ma pochi dei 23 mila siriani che vivono li' hanno subito il processo di israelizzazione avviato dagli occupanti. Come uscire, come convincerli ad andarsene? Chiediamo un intervento internazionale, vogliamo che si rispettino le risoluzioni dell'Onu: il recente viaggio del presidente Hafez Al - Assad in Francia va visto anche in quest'ottica. In un'intervista alla televisione francese ha detto a chiare lettere che la Siria non intende abbandonare le sue terre e che l'ostacolo a una soluzione pacifica del conflitto nel Golan e' il premier Netaniahu che non riconosce le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e vuole tenersi i nostri territori. Tel Aviv ha proposto il ritiro delle sue truppe dal Sud del Libano, ma rimane intransigente sul Golan". Nel documento che il governatore di Quneitra mi sottopone si parla di continui arbitrari arresti di giovani dai 16 ai 20 anni, di condanne fino a due - tre anni, di sempre nuove "semine" di mine antiuomo attorno ai villaggi che hanno ucciso "un gran numero" di persone e di bestiame. Ha fatto molto scalpore l'arresto di una studentessa siriana di 20 anni - Elham Abu Saleh - accusata di spionaggio: l'episodio ha provocato lo sciopero di 15 mila drusi a Majdal Shams e scontri con la polizia. Elham era una dei 400 studenti autorizzati a frequentare l'universita' di Damasco. D'ora in poi, i permessi saranno sempre piu' rari. "E studiare nei villaggi occupati - sottolinea il dottor Walid - significa accettare la sistematica falsificazione della nostra storia e l'ebraico, e non piu' l'arabo, come primo idioma. Capisce, che mondo?". Quneitra - insieme a Kabul, a Beirut, a Grozny - e' quanto di meglio si possa avere come testimonianza della bestialita' della guerra. Non esiste piu', infatti. + stata sfasciata, polverizzata. Un terremoto del settimo grado della scala Mercalli non avrebbe fatto peggio. Girando tra i ruderi, occorrerebbe mettersi in testa una borsa di ghiaccio per mitigare i sussulti di sdegno e di pieta'. Capoluogo del Golan, aveva circa 40 mila abitanti. Ma non ci sono stati morti. Perche', all'arrivo delle truppe di Tsahal (l'esercito ebraico) l'intera popolazione venne scacciata. Prima pero' di andarsene, nel '74, in seguito a un accordo di tregua, hanno ammassato tutta la dinamite di cui disponevano e hanno fatto saltare tutti i nove quartieri della citta', casa per casa, risparmiando soltanto una piccola chiesa greco - ortodossa. Un po' come avvenne anni dopo, quando, dopo un accordo con l'Egitto per la restituzione del Sinai, rasero al suolo un villaggio che avevano costruito nel deserto, assieme agli orti e ai giardini fatti fiorire, con molto sudore, sulla sabbia. Vado a prendermi un caffe' in un bar - ristorante, il solo locale rimesso in piedi a mezzo chilometro dalle distruzioni: dalla terrazza si possono vedere le alture del Golan e gli insediamenti israeliani e anche le torrette da cui vigilano i Caschi blu. Una vita molto triste, monotona, senza svaghi di nessun genere, mi confidera' uno di loro. La ferma e' di 12 mesi. Quando chiedo al proprietario del ristorante perche' Quneitra non e' stata ricostruita dopo 24 anni, la risposta e' quella che danno invariatamente a Damasco: perche' e' la citta' - martire della Siria, brutalmente sacrificata alla "politica espansionista" d'Israele. Durante le guerre del '67 e del '73, la Siria aveva schierato sul fronte del Golan circa 100 mila uomini. Le cinque divisioni avevano a disposizione 1800 carri armati (T - 62 forniti dall'Urss), 250 aerei, 1300 cannoni. Poi sarebbero arrivati i Mig - 23. Da qui partivano le cannonate sui kibbutz e sulle popolazioni inermi della Galilea: e fu proprio per porre fine a questa grandine di proiettili - sostenevano allora le autorita' militari di Gerusalemme - che Tsahal intraprese la sua fulminea avanzata verso Quneitra. Ma ecco che soltanto un mese fa, sul giornale israeliano Yediot Aharonot, escono le sconcertanti dichiarazioni fatte piu' di vent'anni fa da Moshe Dayan a un giornalista ebreo, Rami Tal: secondo cui l'occupazione del Golan era stata decisa dopo la richieste dei coloni dei kibbutz, che "volevano piu' terra per le loro coltivazioni". Per il leggendario generale, eroe della Guerra dei sei giorni, la Siria non costituiva allora una seria minaccia. "Guarda - ha detto testualmente Dayan a Rami Tal -, si puo' dire che i siriani sono dei bastardi, che e' giunto il momento di fargliela pagare cara. Ma non e' cosi' che si fa politica. Non attacchi il nemico perche' e' un bastardo, ma solo se ti minaccia davvero. E il quarto giorno della guerra del 1967, i siriani non ci minacciavano per nulla". E ancora: "Sai come si svolse almeno l'80 per cento degli scontri a fuoco prima della guerra del '67? Noi mandavamo i nostri trattori a scavare nelle zone demilitarizzate sapendo in anticipo che i siriani avrebbero sparato. Sino a che loro finalmente sparavano e noi potevamo rispondere con artiglierie e cannoni per poterci impadronire ogni volta di un pezzettino in piu' di terra... Era la prassi... Fu una delegazione di esponenti dei kibbutz a chiederci di occupare il Golan, volevano piu' terra per le loro coltivazioni. Altro che pericolo siriano! Fu un errore, avrei dovuto impedire un attacco contro la Siria". Dayan e' morto nell'81, avvolto nella sua leggenda. Ma insieme alla gloria, non s'e' portato con se', nella tomba, il suo errore: che da oltre trent'anni continua a riprodursi e far danni. Le ciniche rivelazioni del generale mettono ulteriormente a disagio Netaniahu quando insiste nell'opporsi al ritiro delle sue truppe dal Golan per motivi strategici e di sicurezza delle proprie frontiere: anche perche' essa non potrebbe piu' essere garantita da armi convenzionali. Sulla Shouting Valley si diffonde la luce estenuata del pomeriggio. La gente risale sui pulmini o sulle vecchie macchine per tornare a Damasco o nei villaggi lungo la strada e la frontiera. Anche sull'altro lato vedo gruppi che risalgono la collina verso Majdel Chams. Fino a venerdi' prossimo ci sara' il silenzio: rotto soltanto, talvolta, da una secca detonazione, sprigionata da qualche animale che abbia avuto la disavventura di imbattersi in un campo minato nella terra di nessuno

Fonte:
http://archiviostorico.corriere.it/1998/agosto/10/megafono_del_dolore_sul_Golan_co_0_9808108806.shtml