venerdì 9 gennaio 2009

Alle origini della presenza sionista in Palestina

Da : Wikipedia


Gli albori del problema israelo-palestinese [modifica]

Theodore Herzl, promotore del sionismo

Sul finire del XIX secolo il territorio palestinese faceva parte dei vilayet (governatorati) siriani dell'Impero Ottomano ed era a sua volta suddivisa in due Sangiaccati (province ottomane). Già nel 1887, Gerusalemme aveva ottenuto una forma di autonomia dall'Impero Ottomano, a dimostrazione della sua politica sovraetnica e sovraculturale. All'epoca gli Ebrei costituivano un'esigua minoranza (24.000 persone), integrata con le altre comunità etnico-religiose e, più in generale, con la situazione culturale del luogo.

Intorno alla metà del secolo si era però messo in moto il progetto ebraico mirante a porre fine alla propria millenaria diaspora, frutto di innumerevoli persecuzioni, e a riunificare la nazione permettendo il suo ritorno alla "terra promessa", citata dalla Bibbia, dalla quale era stata espulsa dall'Imperatore romano Tito.

Tale progetto venne per la prima volta definito "Sionismo" nel 1890, dal nome del colle Sion ove sorgeva la rocca di David, metafora del nuovo Stato ebraico. Principale esponente e promotore di tale iniziativa fu Theodor Herzl che, allo scopo di creare un "rifugio" per tutti gli ebrei perseguitati nel mondo (inizialmente come possibile sede di tale Stato fu presa in considerazione anche la vasta e spopolata pampa argentina e, più tardi l'Ogaden in Kenya, che però non rispondevano al forte desiderio religioso dell'Ebraismo di tornare nei suoi luoghi santi, lasciati ormai da diversi secoli), avviò un'intensa attività diplomatica al fine di trovare appoggi finanziari e politici a quell'arduo progetto. Nell'ambito di questa volontà, parte del movimento sionista (soprattutto il sionismo cristiano), per giustificare l'esistenza di un futuro stato ebraico in loco, sovente si rifaceva allo slogan "A Land Without People for a People Without Land" ("Una terra senza popolo, per un popolo senza terra"), frase coniata nella metà XIX secolo da Lord Anthony Ashley Cooper, settimo Conte di Shaftesbury (politico inglese dell'era vittoriana), che venne però spesso interpretata non nell'accezione originale (secondo cui la Palestina, sotto il dominio ottomano, non aveva nessuna popolazione che mostrasse aspirazioni nazionali specifiche), ma come la (errata) negazione della presenza di una significativa popolazione preesistente all'arrivo dei primi coloni ebrei.[1] [2] [3]

Grazie all'appoggio della Gran Bretagna (che vedeva di buon occhio la possibilità di insediamenti nella zona di popolazioni provenienti dall'Europa) e alla grande disponibilità economica di cui godevano alcuni settori delle comunità ebraiche della diaspora (il popolo ebraico era stato costretto per secoli a specializzarsi nelle cosiddette professioni "liberali" e, quindi, a dedicarsi anche al commercio e alle attività economico-finanziarie, con l'occupazione non di rado di importanti cariche in istituti bancari e società d'intermediazione finanziaria), Herzl organizzò il primo convegno sionista mondiale a Basilea nel 1897 e in esso furono poste le basi per la graduale penetrazione ebraica in Palestina, grazie all'acquisto da parte dell'Agenzia Ebraica di terreni da assegnare a coloni ebrei originari dell'Europa e della Russia, per poter poi conseguire la necessaria maggioranza demografica e il sostanziale controllo dell'economia che potessero giustificare la rivendicazione del diritto a dar vita a un'entità statale ebraica.

A partire dall'inizio del '900 la popolazione arabo-palestinese, sentendosi minacciata dalla crescente immigrazione ebraica, dette vita intanto a movimenti nazionalistici che miravano a stroncare sul nascere quella che era considerata una vera e propria minaccia d'origine straniera.

La situazione si protrasse così, tra momenti di tensione e di distensione tra le due fazioni, fino al primo conflitto mondiale e alla conseguente caduta dell'Impero Ottomano.

La Prima guerra mondiale e il Mandato britannico [modifica]

Per approfondire, vedi la voce Mandato britannico della Palestina.

L'Impero Ottomano aveva dato segni di stasi culturale e di crescente disfunzione della sua, fino ad allora, efficiente macchina amministrativa e militare fin dal XVIII secolo, in diretta connessione con l'accelerazione dei processi d'industrializzazione in Europa.

La crescente potenza economica europea si espresse con una più accentuata volontà di ampliare i propri mercati a livello planetario. Come conseguenza logica si accrebbe il desiderio di controllare, direttamente o indirettamente, quelle parti del mondo ricche di materie prime che l'industria europea trasformava oltre a creare più ampi mercati in grado di assorbire le sue merci.

Il modello ideologico vincente in Europa fu, a partire dai primi del XVIII secolo il nazionalismo, e per un elementare fenomeno acculturativo, anche l'Impero Ottomano pensò di seguire lo stesso tracciato europeo. Gli mancava però la necessaria audacia di avviare un analogo processo di laicizzazione e il nazionalismo ottomano non riuscì a fare a meno dell'apporto delle classi religiose.

La ricerca scientifica rimase eminentemente appannaggio dell'Europa e all'Impero Ottomano sembrò sufficiente importare tecnologia "chiavi in mano" da essa senza minimamente immettersi nello stesso cammino ideologico ed epistemologico prefigurato nel Vecchio Continente.

Nel XX secolo la situazione ottomana era vistosamente peggiorata e aveva messo in allarme le stesse potenze europee che da tempo parlavano dell'Impero Ottomano come del "malato d'Europa". Molti movimenti riformatori erano sorti nei territori ancora controllati dalla "Sublime Porta" per tentare di contrastare il processo di degrado politico, economico e culturale (vedi "Giovani Turchi") ma per alcuni di essi l'intento principale da perseguire era quello, né più né meno, dell'indipendenza di stampo occidentale. Fra questi popoli anche Palestinesi arabi e israeliti svolsero un ruolo importante.

Zone di influenza francese e britannica stabilite dall'accordo Sykes-Picot

Con l'esplodere della Prima guerra mondiale e il coinvolgimento dell’Impero Ottomano, molti furono gli israeliti che decisero di lasciare la loro "Terra promessa" per scegliere mete diverse, innanzi tutto gli Stati Uniti, che garantivano migliori condizioni in termini tanto economici quanto di libertà civili.

La spartizione dei possedimenti dell'Impero Ottomano nella regione tra Gran bretagna e Francia al termine della guerra, era stata già decisa nel 1916 con l'Accordo Sykes-Picot (inizialmente segreto, l'Italia non venne messa a parte della trattativa)[4]. Per l'area della Palestina l'accordo prevedeva:

(EN)
« That in the brown area there shall be established an international administration, the form of which is to be decided upon after consultation with Russia, and subsequently in consultation with the other allies, and the representatives of the sheriff of Mecca. »
(IT)
« Che nella zona marrone [la Palestina] potrà essere istituita un’amministrazione internazionale la cui forma dovrà essere decisa dopo essersi consultati con la Russia ed in seguito con gli altri alleati ed i rappresentanti dello sceriffo della Mecca. »
(Accordo Sykes-Picot[5])

Il riconoscimento agli ebrei immigranti dall’Europa del diritto di formare un Focolare nazionale in Palestina fu dato dall’allora Ministro degli esteri della Gran Bretagna Arthur Balfour. Nel 1917 egli pubblicò la Dichiarazione Balfour, con cui la Gran Bretagna riconosceva ai sionisti il diritto di formazione di uno "un focolaio nazionale" ("a National Home") in territorio palestinese, che venne interpretato dagli stessi come la promessa relativa al permesso di costituire uno stato autonomo ed indipendente. Il termine impiegato "focolaio nazionale", al posto di un più esplicito "Stato" o "Nazione", era tuttavia ambiguo e la dichiarazione specificava anche che non dovevano essere danneggiati i "i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche della Palestina". L'interpetazione della Dichiarazione Balfour sarà fin da subito causa di attriti tra la popolazione araba preesistente (che temeva la costituzione di uno stato ebraico) e i sionisti, che la interpretavano come l'appoggio da parte del governo birtannico al loro progetto. Gli stessi inglesi alcuni anni dopo, con il Libro Bianco del 1922[6], rassicurarono la popolazione araba sul fatto che la Jewish National Home in Palestine promessa nel 1917 non era da intendesi come una nazione ebraica, rimarcando però al contempo l'importanza della comunità ebraica presente e la necessità di una sua ulteriore espansione e del suo riconoscimento internazionale.

Con la fine della guerra, grande fu il dibattito tra le maggiori nazioni vincitrici per decidere il futuro di queste zone, anche alla luce delle direttive del presidente statunitense Woodrow Wilson che condannavano la costituzione di nuove colonie. Alla fine, con gli accordi di San Remo del 1920, si optò per l'autorizzazione da parte della Società delle Nazioni di affidare alla Gran Bretagna e alla Francia Mandati, necessari in teoria per educare alla "democrazia liberale" le popolazioni del disciolto Impero Ottomano.

La Russia, con la Rivoluzione d'ottobre, era uscita anticipatamente dal conflitto con la pace di Brest-Litovsk voluta da Lenin, e pertanto non fu coinvolta in questa esperienza che difficilmente potrebbe non essere definita come una forma di neo-colonialismo internazionale. L'Italia, per la tradizionale debolezza della sua politica estera, fu anch'essa tenuta fuori dalle decisioni di riassetto internazionale (il tema della "vittoria mutilata" ebbe grande presa sugli animi degli Italiani e fu abilmente messa a profitto dal nascente fascismo).

La Società delle Nazioni affidò dunque alla Gran Bretagna un mandato per la Palestina, che fino a quel momento e per tutti i secoli precedenti aveva coinciso con il territorio degli odierni Stati di Israele e Giordania. La Società delle Nazioni riconosceva gli impegni presi da Balfour, pur rimarcando nuovamente che questi non dovevano essere realizzati a discapito dei diritti civili e religiosi della popolazione non ebraica preesistente. Per permettere l'adempimento degli impegni presi, la Società delle Nazioni riteneva necessario istituire un'agenzia che coordinasse l'immigrazione ebraica e collaborasse con le autorità britanniche per istituire norme atte a facilitare la creazione di questo focolare nazionale, come per esempio la possibilità per gli immigrati ebrei di ottenere facilmente la cittadinanza palestinese; l'organizzazione Sionista veniva ritenuta la più adatta per questo compito. Oltre a questo il Mandatario doveva predisporre il territorio allo sviluppo di un futuro governo autonomo.[7]. Così, nel 1922 l’Inghilterra, seguendo quanto già deciso negli accordi di Sykes-Picot, concesse tutti i territori ad est del fiume Giordano (quasi il 73% dell'intera area del Mandato) all’emiro Abdullah. Questo divenne la Transgiordania, con una maggioranza di popolazione araba (nel 1920 circa il 90% della popolazione, stimata in un totale di circa 4.000.000 di abitanti[8]), mentre l'aera ad ovest del Giordano venne gestita direttamente dalla Gran Bretagna.

Se la reazione delle popolazioni arabe (musulmane e cristiane) a tali progetti fu vivace e del tutto improntata all'ostilità, diverso fu invece l'atteggiamento del movimento sionista che, forte delle precedenti promesse fattagli, considerò il Mandato britannico sulla Palestina il primo passo per la futura realizzazione dell'agognato Stato ebraico.

Le proteste della popolazione araba furono ancor più esacerbate per la palese violazione britannica degli accordi (anch'essi segreti) sottoscritti con lo sharīf di Mecca, al-Husayn b. ‘Alī, col ministro plenipotenziario di Sua Maestà Sir Henry MacMahon, Alto Commissario in Egitto, che aveva promesso, dopo la caduta dell'Impero Ottomano, il riconoscimento agli Arabi dei diritti all'auto-determinazione e all'indipendenza in cambio della loro partecipazione agli sforzi bellici anti-ottomani, e la creazione di uno "Stato arabo" dagli imprecisati confini.

In base a tali accordi alcuni contingenti arabi, guidati dal figlio dello sharīf, Faysal (futuro sovrano d'Iraq), parteciparono alla cosiddetta "Rivolta Araba", forte dell'aiuto della Gran Bretagna che distaccò come suo ufficiale di collegamento (ma di fatto suo plenipotenziario) il colonnello Thomas Edward Lawrence (più noto come Lawrence d'Arabia). Ben si conosce la disillusione dello stesso ufficiale che, dopo molto aver promesso e molto ottenuto, fu costretto ad assistere del tutto impotente alla cinica violazione degli impegni presi da Londra, da lui stesso in buona fede calorosamente avallati.

Anche se in realtà la Gran Bretagna era stata in grado di controllare militarmente la zona palestinese fin dal 1917, fu solo nel 1923 che il Mandato entrò effettivamente in vigore e fin dall'inizio cominciarono a sorgere nel Paese vari movimenti di resistenza araba (muqàwwama) che miravano, al pari dei movimenti irredentistici italiani, all'allontanamento di tutti quanti consideravano stranieri.

Sotto il Mandato britannico l'immigrazione ebraica nella zona subì un'accelerazione mentre l'Agenzia Ebraica - organizzazione sionista che agiva grazie ai finanziamenti provenienti da sostenitori esteri - operò alacremente per l'acquisto di terreni. Il risultato fu quello di portare la popolazione ebraica in Palestina dalle 83.000 unità del 1915, alle 84.000 unità del 1922 (a fronte dei 590.000 arabi e 71.000 cristiani), alle 175.138 del 1931 (contro i 761.922 arabi e i quasi 90.000 cristiani), alle 360.000 unità della fine degli anni trenta, quando ancora non era completamente nota alla pubblica opinione internazionale la dimensione delle misure repressive adottate contro gli ebrei dalla Polonia e, in modo assai più marcato, dalla Germania nazista.

Negli anni venti e trenta numerose furono le dimostrazioni di protesta da parte dei movimenti palestinesi, che sovente sfociarono in veri e propri scontri a tre tra l’esercito di Sua Maestà britannica, i residenti arabi e i gruppi armati dei coloni ebrei. Spesso gli attriti non erano dovuti all'immigrazione in sé, ma ai differenti sistemi di assegnazione del terreno: gran parte della popolazione locale per il diritto inglese non possedeva il terreno, ma per le abitudini locali possedeva le piante che vi venivano coltivate sopra (tra cui gli alberi di ulivo, che erano la coltura prioritaria e che, vivendo anche secoli, divenivano dei "beni" passati di generazione in generazione nelle famiglie), di conseguenza molti terreni usati dai contadini arabi erano ufficialmente (per la legge inglese) senza proprietario e venivano quindi acquistati dai coloni ebrei (o loro affidati) appena immigrati i quali, almeno in un primo tempo, erano ignari di questa situazione.

Questo, unito alle regole con cui venivano effettuate le assegnazioni (la terra doveva essere lavorata solo da lavoratori ebrei e non poteva essere ceduta o subaffittata a non ebrei), di fatto toglieva l'unica fonte di sostentamento e lavoro a moltissimi insediamenti arabi preesistenti. [9]

Il 14 agosto del 1929 alcuni gruppi di sionisti (per un totale di diverse centinaia di persone, quasi tutte facente parte del gruppo sionista Betar di Vladimir Jabotinskij) marciarono sul Muro del pianto di Gerusalemme (luogo sacro ad entrambe le religioni e che già negli anni precedenti era stato motivo di scontro), rivendicando a nome dei coloni ebrei l'esclusiva proprietà della Città Santa e dei suoi luoghi sacri. Il gruppo era scortato dalle forze dell'ordine, avvisate in anticipo, con lo scopo di evitare disordini, nonostante questo iniziarono a circolare voci su scontri in cui i sionisti avrebbero picchiato i residenti arabi della zona e offeso Maometto. . Come risposta il Consiglio Supremo Islamico organizzò una contro-marcia ed il corteo, una volta arrivato al Muro, bruciò le pagine di alcuni libri di preghiere ebraiche. Nella settimana gli scontri continuarono e, infiammati dalla morte di un colono ebreo e dalle voci (poi rivelatesi false) sulla morte di due arabi per mano di alcuni ebrei si ampliarono fino a comprendere tutta la Palestina.

Il 20 agosto l'Haganah offrì la propria protezione alla popolazione ebraica di Hebron (circa 600 persone su un totale di 17.000), che la rifiutò contando sui buoni rapporti che si erano instaurati con la popolazione araba e i suoi rappresentanti. Il 24 agosto gli scontri raggiunsero la città dove furono uccisi quasi 70 ebrei, altri 58 furono feriti, alcune decine fuggirono dalla città e 435 trovarono rifugio nelle case dei loro vicini arabi per poi fuggire dalla città nei giorni successivi agli scontri.

Alcune famiglie torneranno ad Hebron due anni dopo, per poi lasciarla definitivamente nel 1936, evacuate dalle forze britanniche. Alla fine degli scontri ci furono tra gli ebrei 133 morti e 339 feriti (quasi tutti relativi a scontri con la popolazione araba, quasi 70 solo ad Hebron), mentre tra gli arabi ci furono 116 morti e 232 feriti (per la maggioranza dovuti a scontri con le forze britanniche).

Una commissione britannica presieduta da Sir Walter Russell Shaw giudicò e condannò i sospettati di stragi e rappresaglie (195 arabi e 34 ebrei) ed emise diverse condanne a morte (17 arabi e 2 ebrei, commutate con la prigione a vita tranne quelle di 3 arabi che furono impiccati), negò ogni accusa di scarsa efficacia di intervento da parte delle forze inglesi, condannò fermamente gli attacchi iniziali della popolazione araba contro i coloni ebraici e le loro proprietà, giustificò le rappresaglie da parte dei coloni ebrei contro gli insediamenti arabi come una "legittima difesa" dagli attacchi subiti e vide nel timore di uno stato ebraico il motivo di questi attacchi.

Oltre a questo la commissione raccomandò al governo di riconsiderare le proprie politiche sull'immigrazione ebraica e sulla vendita di terra ai coloni ebrei, raccomandazione che portò alla creazione di una commissione reale guidata da Sir John Hope Simpson l'anno successivo.

La politica di Londra tuttavia non mutò, malgrado varie condanne da parte della stessa Società delle Nazioni. Nel 1936, grazie a uno sciopero generale di sei mesi indetto dal Comitato Supremo Arabo, che chiedeva la fine del Mandato e dell'immigrazione ebraica, la Gran Bretagna, dopo tre tentativi falliti di ripartizione delle terre in due stati indipendenti (ma Gerusalemme e la regione limitrofa sarebbero rimasti sotto il controllo britannico), concesse d'imporre un limite a tale immigrazione.

La decisione in realtà fu più che altro formale, visto che l’ingresso clandestino aumentò sensibilmente anche a causa delle persecuzioni che gli Ebrei avevano cominciato a subire da parte della Germania nazista fin dal 1933. Londra vietò inoltre l'ulteriore acquisto di terre, promettendo di rinunciare al suo Mandato entro il 1949 e prospettando per quella data la fondazione di un unico Stato di etnia mista araba-ebraica.

Intanto, se da un lato alcuni palestinesi si erano affidati agli atti terroristici come estrema forma di lotta contro una presenza che veniva considerata quella di un occupante straniero, un ricorso più sistematico al terrorismo fu perseguito dalle organizzazioni militanti sioniste che organizzarono gruppi militari, come l'Haganah e il Palmach, e paramilitari, quali l'Irgun e la più estremistica "Banda Stern", che si occupavano di intimidire l'elemento arabo o di attaccare i militari e diplomatici britannici, causando diverse centinaia di morti tra la popolazione.

Verso la fine degli anni trenta, dopo la Grande Rivolta Araba e i falliti tentativi di divisione della Palestina in due Stati, sollecitata dalla Commissione Peel, la Gran Bretagna si pentì di aver sostenuto il movimento sionista, che mostrava aspetti inquietanti e violenti e cominciò a negare al sionismo quel discreto appoggio politico che fin lì aveva garantito, producendo il "Libro Bianco" nel 1939 [10]. Ciò indusse pertanto gli ebrei palestinesi a cercare negli Stati Uniti quello che fino ad allora aveva concesso loro l’Impero britannico.

Con la seconda guerra mondiale gli ebrei (con l'esclusione del gruppo della Banda Stern) si schierarono con gli Alleati mentre molti gruppi arabi guardarono con interesse l'Asse, nella speranza che una sua vittoria servisse a liberarli dalla presenza britannica. L'esito del conflitto non valse perciò a modificare la situazione di stallo che sfavoriva la popolazione araba, ancora maggioritaria.

6 commenti:

  • Boh.
    Io vedo i blog italiani (non sto parlando del tuo) che parlano di "genocidio", o anche semplicemente di "massacri" a proposito di un conflitto (quello israelo-palestinese) che fa morti nell'ordine degli incidenti stradali in Italia, e viceversa si guardano bene dal menzionare anche solo una volta i disastri veri, tipo il conflitto congolese (http://www.reuters.com/article/worldNews/idUSL2280201220080122). Perché tutto st'interesse a senso unico? Solo perché di mezzo ci sono l'ebbbrei?
    E perché ci si attiva immediatamente appena Israele si muove, ma mai quando sono i Palestinesi (o gli Hizbollah) a muoversi? La pace si rompe solo quando si muovono i tank israeliani, o non anche quando mi sparano i razzi in testa un giorno sì e l'altro pure o mettono le bombe al supermercato?
    E perché non c'è un cane che protesta quando ci sono imbecilli come questi qua (http://roma.repubblica.it/dettaglio/Quelle-frasi-farneticanti-del-sindacato-di-base-Flaica/1572362) che non distinguono tra ebrei e israeliani? Perché questi sarebbero meglio di quelli che pensano che gli arabi sono tutti terroristi? Perché devo aspettare che sia ALEMANNO a portare solidarietà alla comunità ebraica romana, mentre la "sinistra" non fiata?
    Ariboh.

    9 gennaio 2009 alle ore 02:20

  • Intanto se ti leggi di fianco un post che ho ricavato dalla rete puoi vedere come, in realtà, nel 2008 il conflitto che ha fatto più morti è quello che vede coinvolti i Tamil.
    Per quanto riguarda il resto non mi sembra un gran che l'argomento dei morti sulle strade.
    Poi, per quanto mi riguarda quello che penso (adesso) è che Israele (come stato inventato sulla base di una risoluzione ONU) è un elemento destabilizzante in quella parte del mondo.E come tutte le cose inventate a tavolino si può reggere solo su un conflitto perenne ed in punta di arma.
    La sua responsabilità è quella di aver sempre e solo condotto politiche di espansione su quei territori.Questi sono i risultati.
    Ognuno combatte con quello che ha, ed i sionisti lo sanno bene.Sulla contabilità dei morti non ci perderei molto tempo vista la sproporzione (ammesso che interessi)
    Le tregue si rompono in tanti modi, ad esempio isolando una zona ed impedendo gli approvvigionamenti e/o continuando a produrre azioni militari che fanno quasi 50 morti in sei mesi.
    Sta roba della palestina mi ricorda tanto la conquista del West.
    Magari quello che spinse allora e motivò "ideologicamente" lo sterminio di un pò di pellerossa fu la ricostruzione dei movimenti dei Vichinghi da un continente ad un altro.
    Ridurre la questione alla questione ebraica è spostare il tutto su un terreno che non riguarda il perché si combatte da quelle parti. C'è qualcuno che accampa diritti e qualcun altro che dice "no! questa è la mia terra"

    9 gennaio 2009 alle ore 03:10

  • Mario, ultima perché la questione veramente mi annoia. "Chi ha diritti" come si stabilisce? Da chi ci stava prima? Allora gli ebrei stavano in palestina da molto prima che ci stessero gli arabi. E c'erano anche nel '47, ed erano pure parecchi.
    Che Israele sia o meno "artificiale" mi pare davvero una questione accademica (anche perché allora lo sarebbe anche la "Palestina", se è per questo, visto che uno stato palestinese non è mai esistito). Il Botswana è "artificiale" almeno quanto Israele e Palestina, e non ha mai avuto né guerre né conflitti civili.
    Il punto è che o si parte dal presupposto che Israele e Palestina abbiano entrambi diritto ad esistere - e allora è giusto
    pretendere da entrambi (=non solo da Israele) comportamenti conseguenti - o in alternativa non vedo proprio che altro aspettarsi che la guerra. Perché purtroppo, se da quella parte c'è chi la pace (che significa non "tregua" in attesa finalmente di avere armi un po' migliori dei razzi qassam, ma sedersi al tavolino per fissare sti benedetti confini e RINUNCIARE alle armi, entrambi, non solo Israele) non la vuole, e lo dimostra in centomila modi diversi, perché minchia la dovrebbe volere Israele?
    E non è purtroppo che usare (un po' a vanvera, se permetti) il termine "sionisti" aiuti a capire: il "sionismo" è finito con la nascita di Israele: oggi essere "antisionisti" significa semplicemente volere la cancellazione dello stato di Israele.
    Ma resto cmq in attesa di sapere perché,s econdo te, alla "sinistra" italiana non gliene frega una ceppa né dei simpaticoni che invitano a boicottare i negozi degli ebrei, né degli altri conflitti che insanguinano il mondo, salvo (oltre alla palestina) quelli dove ce sta in mezzo l'Amerika. A me BHL e Pascal Bruckner mi stanno abbastanza antipatici, ma va detto che su questo ciànno proprio ragione.

    9 gennaio 2009 alle ore 03:43

  • Sulla questione accademica. Beh, se ti riferisci alla presenza dei semiti forse hai ragione.Ma erano semiti.
    Che poi sia accademica è un modo per chiudere elegantemente la questione.
    Ragionando così qualsiasi gruppo che si richiami ad una identità e che "dimostra" (magari facendo riferimento a qualche testo sacro)che un territorio gli appartiene può accampare qualsiasi diritto e cacciare chi gli pare. Perché questo è ciò che hanno fatto i sionisti.
    Poi non è che tutti accettano passivamente qualsiasi tipo di sopruso. In Botswana magari la pensano diversamente, per fortuna.
    perché dovrebbe volerla lo stato d'Israele la pace è una bella domanda, considerato che i malevoli dicono che Hamas è una sua creatura nata per indebolire l'OLP di Arafat.
    Ho sempre la curiosità di sapere cosa spinge uno ad occupare uno spazio che non è suo e poi ad incazzarsi se dall'altra parte provano a cacciarlo.
    Specie se quello ci vuole avere anche ragione.Anche perché ciò aprirebbe scenari interessanti anche per i "nazionalisti" Italiani di fronte all'orda nord africana che colonizza interi quartieri delle città italiane(è una provocazione nel caso in cui qualche imbecille dovesse leggere male).
    Per quanto riguarda la domanda sulla sinistra e sulla sua sensibilità su altre questioni ti rispondo per quanto mi riguarda.
    Io sono stato testimone di guerre guerreggiate in centro america prima e sud america poi. Ti parlo di Salvador, Guatemala, Perù e poi Messico.E ti assicuro che da quelle parti negli anni tra la fine del 70 e gli 80 di morti se ne facevano tanti.
    Quelli che ho visto spendere tempo ed energie su quelle questioni sono sempre stati i "sinistri" velleitari come il sottoscritto. E non è che siamo in molti.
    Fassino, a suo tempo, parlando di Marcos ( ad esempio) dichiarò che uno zorro mascherato non lo interessava. Bertinotti scopri' il Messico e le sue guerre solo quando si fece una passeggiata nel Chiapas.
    Se permetti quella domanda la dovrei rivolgere io anche a te ed a quelli che scoprono quelle questioni quando c'è da discutere di altro. Il "benaltrismo", o no?
    Non ne ho idea e non credo che c'entri solo l'America anche se con quello che fanno ed hanno fatto non possono pensare di non attrarre l'attenzione.
    Io in certi posti vedevo solo "osservatori" e "consiglieri" americani. Anche dove di comunisti non si vedeva l'ombra. Sempre a disposizione dell'oligarca locale, sempre convinti di dover difendere lo status quo anche in presenza di cose indecenti per qualsiasi "liberale".
    Sulla questione del boicottaggio penso che sia una cazzata che permette di mischiare alcune questioni che non ci azzeccano nulla.
    Fa fare bella figura anche ad un fascista che si richiama, criticandole nell'occasione, alle leggi razziali del padre ideologico.
    Mi viene da ridere, poi, se penso a come gli interessi globalizzati fanno sedere fianco a fianco in tanti consigli di amministrazione gente con passaporto e fede contrastante.
    Però, per essere precisi sembra che la questione non stia nei termini proposti da Repubblica leggere questo:
    http://www.giornalismi.info/aldovincent/articoli/art_1403.html

    9 gennaio 2009 alle ore 06:19

  • "Se permetti quella domanda la dovrei rivolgere io anche a te ed a quelli che scoprono quelle questioni quando c'è da discutere di altro. Il "benaltrismo", o no?"

    Ma io non ho mica problemi a rispondere! Io, per es., non sono un pacifista. Dico che la guerra è sempre brutta, anzi è orribile, ma a volte è inevitabile, perché la guerra si può fare anche da soli, mentre per fare la pace bisogna essere in due. Mentre c'è chi parla di pace come se gli unici morti che meritano di esser pianti fossero quelli palestinesi.

    Ripeto, sulla questione Palestina/Israele purtroppo non è possibile discutere se si va alla ricerca del chi ha ragione e da quando ha ragione: non ci riusciamo noi qui in Italia, figurati se ci riescono loro laggiù, no?
    Cmq:
    - che c'entrino i "semiti", boh?
    - nel 47/8 sono nati due stati che prima non esistevano: punto. Quale dei due era "legittimo"? Chi dei due ha "cacciato" l'altro? I fatti sono che Israele ha accettato la spartizione (i territori sono tuttora "occupati", non "annessi": guarda un po' invece cos'ha fatto la Giordania? e chissà perché dell'"annessione" giordana nessuno, nella "sinsitra" europea, ha mai parlato, mentre tutti si stracciano le vesti per l'"occupazione" israeliana?).
    Così non se ne esce.
    L'unico modo per uscirne (e speriamo che nuova amministrazione USA imbocchi quella strada) è quella di dire con chiarezza e definitivamente che I e P hanno ENTRAMBI diritto ad esistere. Che conviene a tutti. Il resto sono dettagli; ma il problema è tutto lì.

    9 gennaio 2009 alle ore 06:26

  • Visto che scrivi delle origini mi riferisco a questo:

    "Con il termine Semiti si intendono tutti i popoli che parlano, o hanno parlato, lingue collegate al ceppo linguistico semitico (tra questi Arabi, Ebrei, Cananeo-Fenici, Cartaginesi, Maltesi).

    Il primo a proporre una definizione del termine fu dato nel 1787 da Eichorn (Einleitung in das Alte Testam., Lipsia, II ed., I, p. 45) che volle rifarsi alla definizione biblica di Genesi X-XI, che indicava una serie di nazioni discese dal figlio del patriarca Noè, Sem.
    Al di là delle imprecisioni bibliche (nei popoli parlanti idiomi strutturalmente riconducibili a un unico ceppo linguistico sono infatti elencati anche gli Elamiti della Susiana e i Lidi che parlavano altri idiomi, mentre non è citato il Cananeo). Le analisi genetiche mostrano come i popoli genericamente indicati come i "semiti" condividano una notevole affinità che confermerebbe la discendenza da antenati linguistici comuni, malgrado vi siano stati inevitabili contributi ed influenze da parte di altri gruppi linguistici.
    Il dibattito sull'esatto significato del termine è ancora aperto ma vi è un largo consenso nell'accettare che, da un punto di vista linguistico, il termine si riferisce oggi ad Ebrei, Arabi e alle genti che impiegano la lingua amarica e la lingua aramaica.
    La forma negativa del termine antisemita è invece usata nell'accezione pura e semplice di anti-ebraico.
    I popoli proto-semiti, antenati dei semiti del Vicino Oriente, si ritiene provenissero dalla Penisola Araba, anche se non mancano ipotesi su una derivazione mesopotamica in cui, col regno di Akkad, si ha conoscenza allo stato attuale della prima cultura linguisticamente semitica."
    Poi leggere qui:
    http://www.nwo.it/antisionismo.html

    Sicuramente la discussione tra me e te è "accademica" e non se ne esce.
    Considera che io pacifista non lo sono e non lo sono mai stato, anzi.
    Mi limito a ricostruire storicamente un processo e su chi ha cacciato chi penso di non avere molti dubbi.

    9 gennaio 2009 alle ore 06:41

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