Due interessanti contributi che portano alla questione su quelle che sono le radici "ideologiche" dello stato israeliano.
Il secondo è datato ed è opera di un deputato del parlamento d'Israele.
di Vera Pegna
«Col vostro appassionato contributo possiamo combattere con successo ogni indizio di razzismo, di violenza e di sopraffazione contro i diversi, e innanzitutto ogni rigurgito di antisemitismo. Anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele». Queste parole pronunciate dal presidente della Repubblica il 25 gennaio 2007 in occasione della celebrazione del “Giorno della memoria” fanno venire in mente chi come Martin Buber, Albert Einstein, o Judah Magnes, criticò invece con forza il progetto sionista e chi se ne dissociò e lo combattè tenacemente come Moshe Menuhin (padre del grande violinista).
In Italia “Il Vessillo israelitico”, portavoce dell’ebraismo emancipato, prendeva posizione contro il sionismo e il Rabbino Eude Lolli dichiarava sul Corriere israelitico: «Ogni idea di nazionalità politica deve essere da noi abbandonata perché non risponde né al sentimento né al bisogno nostro e solo minaccia di farci perdere la giusta via». Sia Menuhin che gli altri ebrei contrari al sionismo erano persone profondamente religiose per le quali il sionismo significava il ritorno a Sion (la collina dove si erge Gerusalemme) per mantenervi vivi i valori essenziali del giudaismo.
Contro il progetto sionista di “Eretz Israel”, il Grande Israele, si espressero altresì degli esponenti politici di comunità ebraiche europee (ricordo che il sionismo politico nasce in Europa in risposta alle persecuzioni che avevano colpito gli ebrei nei secoli) con dichiarazioni di una lungimiranza impressionante. E' il caso di David Alexander, presidente del Consiglio dei parlamentari ebrei britannici e di Claude Montefiore, presidente dell’Associazione anglo-ebraica, i quali, a proposito della dichiarazione del ministro degli esteri Lord Balfour che dava il pieno appoggio del Regno Unito al progetto sionista della creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina, affermano a nome del loro Comitato Congiunto: “Dagli albori della loro emancipazione in Europa, il reinsediamento della comunità ebraica in Terra Santa ha rappresentato per gli ebrei una delle loro preoccupazioni maggiori e hanno sempre coltivato la speranza che il loro impegno potesse rigenerare sulla terra di Palestina una comunità ebraica degna delle loro grandi memorie e fonte di ispirazione spirituale per tutti gli ebrei».
Ciò premesso, però, Alexander e Montefiore spiegano il duplice motivo della loro opposizione: «Il primo riguarda la rivendicazione che sia riconosciuto un carattere nazionale in senso politico agli insediamenti ebraici in Palestina. Se si fosse trattato di una questione prettamente locale, la si sarebbe potuta regolare nel quadro delle esigenze politiche generali legate alla riorganizzazione del paese da parte di un nuovo potere sovrano... Ma la rivendicazione attuale ... fa parte integrante di una teoria sionista più ampia la quale considera che tutte le comunità ebraiche del mondo costituiscono un’unica nazionalità priva di una patria (homeless), incapace di identificarsi completamente sul piano sociale e politico con le nazioni in cui vivono, e viene sostenuto che questa nazione senza patria abbia bisogno di disporre sempre di un centro politico e di una patria in Palestina. Con forza e con impegno (protestiamo) contro questa teoria. Gli ebrei emancipati di questo paese si considerano innanzi tutto una comunità religiosa e hanno sempre fondato la loro richiesta di uguaglianza politica con i concittadini di altri credi su tale assunto e sul suo corollario - ovvero che non hanno altre aspirazioni nazionali in senso politico. Considerano il giudaismo un sistema religioso che non ha niente a che fare con il loro status politico e affermano che, in quanto cittadini dello stato nel quale vivono, si identificano pienamente e sinceramente con lo spirito e gli interessi nazionali dei loro paesi. Ne consegue che lo stabilimento in Palestina di una nazionalità ebraica fondata su tale teoria di assenza di una patria ebraica conduce immancabilmente a marchiare gli ebrei come stranieri nei loro paesi natii e a compromettere la loro posizione faticosamente raggiunta di cittadini e sudditi di quei paesi. Inoltre, una nazionalità politica ebraica portata alla sua conclusione logica non è altro, nelle attuali circostanze mondiali, che un anacronismo. Essendo la religione ebraica la sola prova certa di ebraicità, la nazionalità ebraica si dovrà fondare sulla religione ed essere da questa circoscritta. E' inconcepibile supporre per un solo istante che qualsiasi gruppo di ebrei possa volere un commonwealth governato da prove religiose e limitativo della libertà di coscienza; ma può una nazionalità religiosa esprimersi in qualsivoglia altro modo? La sola alternativa sarebbe una nazionalità ebraica secolare, reclutata in base a qualche vago e oscuro principio di razza o di particolarità etnografica; ma ciò non sarebbe ebraico in nessun senso spirituale e il suo insediamento in Palestina sarebbe la negazione di tutti gli ideali e di tutte le speranze grazie ai quali la rinascita di una vita ebraica in quel paese alimenta la coscienza ebraica e la simpatia verso gli ebrei... Il secondo punto del programma sionista che ha suscitato le apprensioni del Comitato congiunto riguarda la proposta di attribuire ai coloni ebrei in Palestina determinati diritti speciali in aggiunta a quelli di cui gode il resto della popolazione; ...non è certo auspicabile che degli ebrei richiedano o accettino tale concessione basata su privilegi politici e preferenze economiche. Questa situazione si tradurrebbe in una vera e propria calamità per tutti gli ebrei. Nei paesi nei quali vivono per essi è vitale il principio di uguali diritti per tutte le comunità religiose. Qualora in Palestina dessero l’esempio di trascurare questo principio si dimostrerebbero colpevoli di averci fatto ricorso per ragioni puramente egoistiche. Nei paesi dove essi lottano ancora per l’uguaglianza si troverebbero irrimediabilmente compromessi, mentre in altri paesi dove questi diritti sono loro garantiti avrebbero grandi difficoltà a difenderli. La proposta è tanto più inammissibile perché gli ebrei sono e probabilmente per molto tempo rimarranno una minoranza della popolazione palestinese e perché verrebbero così coinvolti nelle dispute più aspre con i loro vicini di altre razze e religioni il che ritarderebbe il loro progresso e avrebbe echi deplorevoli in tutto l’Oriente. Né tale schema è necessario per gli stessi sionisti. Se gli ebrei prevarranno in una competizione basata su diritti e possibilità perfettamente uguali, essi stabiliranno la loro preponderanza nel paese nel corso del tempo e lo faranno su una base molto più solida che non su quella resa possibile da privilegi e monopoli».
Eravamo nel 1917. Da allora la storia europea e mediorientale è stata segnata da grandi e orribili eventi: la seconda guerra mondiale, il nazismo che massacrò milioni di polacchi, di russi, di ungheresi, di francesi, di italiani perché di religione o di origine ebraica, ma anche zingari, oppositori politici (comunisti e non), omosessuali, disabili; la cacciata dei palestinesi dalla loro terra ad opera delle formazioni sioniste fra le quali l’Irgun capeggiato da Livni, padre dell’attuale ministro degli esteri israeliano.
Nel 1948 fu proclamata unilateralmente la fondazione dello stato d’Israele che per legge riconosceva a tutti gli ebrei del mondo il “diritto al ritorno” ma rifiutava lo stesso diritto ai palestinesi che vi erano vissuti da sempre, fino a pochi giorni o pochi mesi prima. Dunque il carattere sionista del nuovo stato veniva chiaramente definito dall’inizio. Israele nasceva come stato ebraico e non come lo stato dei cittadini che vi vivevano. E nasceva altresì come stato di tutti gli ebrei del mondo i quali avevano il diritto di stabilirvisi e di ottenerne la cittadinanza. La definizione di chi era ebreo fu delegata ai rabbini i quali sentenziarono che ebreo è chi nasce da madre ebraica, condizione tutt’ora valida per ottenere la cittadinanza israeliana. Le apprensioni dei due esponenti britannici sopra citati venivano così avverate.
Nel 1962 nasce in Israele un partito antisionista, il Matzpen la cui storia e raccontata nel dvd “Zionism or Peace: it’s your choice” e lo si può richiedere all’indirizzo: (aki_orr@netvision.net.il). Uno dei suoi fondatori, Akiva Orr, vive tutt’ora a Tel Aviv e continua la sua battaglia nonostante gli anni e una salute cagionevole. Ma forse l’esponente più autorevole e tenace dell’antisionismo israeliano è stato Israel Shahak, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, professore universitario e presidente della lega israeliana per i diritti dell’uomo. Shahak denunciò le discriminazioni cui erano sottoposti per legge i cittadini palestinesi di Israele spiegando come ciò fosse la conseguenza inevitabile della natura stessa dell’ideologia sionista ispirata al mito biblico del “popolo eletto” e della “terra promessa”. Shahak distingueva nettamente le critiche al sionismo provenienti dall’occidente dall’antisionismo che talvolta copriva un antisemitismo sempre vivo in paesi come la Russia e la Polonia. In quanto all’antisionismo degli arabi e a quello dei palestinesi in particolare, asseriva che altro non era se non la reazione naturale di quelle popolazioni alla fondazione dello stato di Israele nonché al terrorismo sionista che l’aveva preceduta. Non era il solo a pensarla a questo modo.
Lo stesso Moshe Dayan aveva affermato: «Non è vero che gli arabi odiano gli ebrei per motivi personali, religiosi o razziali. Ci considerano, con ragione dal loro punto di vista, degli occidentali, degli estranei, degli invasori che si sono impossessati di un paese arabo per trasformarlo in uno stato ebraico».
Due anni fa durante la guerra del Libano il quotidiano israeliano Yediot Aharonot scriveva: «Vincere o morire. Israele deve affrontare una dichiarazione di guerra lanciata da due organizzazioni terroristiche: Hamas, sunnita, a sud, ed Hezbollah, sciita, a nord. Entrambe non riconoscono ad Israele il diritto di esistere; entrambe sono radicate in territori da cui le truppe israeliane si sono ritirate unilateralmente; entrambe sollevano le folle e mettono a dura prova l’esercito e la popolazione israeliani. Se dovessero uscire a testa alta da questa guerra e sventolare il vessillo della vittoria, significherebbe la fine del progetto sionista». Ed è vero poiché tranne il piccolo partito comunista nessun partito o uomo politico israeliano si è mai dissociato dal progetto sionista del Grande Israele, né ha mai dichiarato quali dovessero essere i confini definitivi di questo stato. Anzi va rilevato che parole tanto chiarificatrici quanto pericolose a questo proposito sono state pronunciate da Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri di Israele. Riferendosi a suo padre ha dichiarato: «Sulla lapide della sua tomba si legge: “Qui giace il capo delle operazioni dell'Irgun” e sulla lapide compare anche una mappa del Grande Israele, di cui fanno parte entrambe le sponde della Valle del Giordano. Molti mi chiedono se il compromesso dei Territori non sia contrario all'ideologia di mio padre, e io rispondo che egli mi ha insegnato a credere in un Israele democratico, patria del popolo ebraico, dove tutti possono godere di pari diritti. Sono però giunta alla conclusione che si deve effettuare una scelta e io ho deciso di creare una patria per il popolo ebraico, ma soltanto in una parte della terra di Israele... Israele è nato come patria per il popolo ebraico. Questo dovrebbe essere l'autentico significato anche del futuro Stato palestinese. Dovrebbe essere la risposta per tutti i palestinesi, ovunque essi siano, quelli che vivono nei Territori e quelli che sono trattati come pedine politiche nei campi profughi. In altre parole, quindi, la nascita dello Stato palestinese dovrebbe risolvere quello che i palestinesi chiamano “il diritto al ritorno”».
Dunque il progetto sionista rimane in piedi, leggermente ridimensionato dal punto di vista territoriale ma intatto in suo esclusivismo che preferisco non qualificare. (Come vogliamo chiamare la condizione "ebraica" da soddisfare per diventare cittadini dello “stato ebraico”?) Inoltre il diritto dei profughi al ritorno nelle loro case, sancito dal diritto internazionale, non verrà riconosciuto ai palestinesi che sono stati «messi in condizione di fuggire» come diceva Begin.
In questo scritto ho evitato ogni considerazione riguardante la situazione mediorientale odierna per concentrarmi su ciò che ha significato il sionismo in passato e sull’ostacolo alla composizione del conflitto che continua a costituire oggi anche se, nei 60 anni trascorsi dalla fondazione dello stato d’Israele, sono andati emergendo innumerevoli altri problemi che hanno complicato la realtà. Il principale fra questi è la capacità di resistenza del popolo palestinese che ha preso i sionisti in contropiede; d’altronde il disprezzo dell’occupato da parte dell’occupante che lo considera incapace di anelare alla libertà è una costante della storia. Ho ricordato le voci ebraiche critiche del sionismo, pochissimo note grazie al lavoro paziente e talvolta spietato svolto da ciò che Menuhim chiamava «la macchina sionista che diffama, denigra, infanga chiunque osi criticare ciò che fa il sionismo in Israele e fuori», la quale non esita ad accusare di antisemitismo chiunque (in particolare se di ascendenza ebraica) osi criticare il progetto sionista; accusa talmente infamante da chiudere la bocca ai più. Ed è anche per dimostrare la strumentalità di tale accuse che ho riferito unicamente voci ebraiche critiche del sionismo.
Tuttavia il sionismo non riguarda solamente gli ebrei. Riguarda chiunque abbia a cuore i diritti umani, la legalità internazionale e la pace, ma anche la sicurezza dello stato di Israele, sicurezza che può essere garantita solo ponendo fine alle sofferenze inflitte al popolo palestinese dal sionismo crudele e da chi lo appoggia e ne copre gli intenti. Il titolo del dvd del Matzpen: “Sionismo o pace, la scelta è vostra” e tutt’ora valido.
Fonte:
http://avvenirelavoratori.eu/2008/05/sionismo-o-pace-la-scelta-vostra.html
di Azmi Bishara*
(Traduzione di Titti Pierini)
Sembra che i recenti avvenimenti portino alla creazione di un sistema di apartheid sia all’interno dello Stato di Israele sia tra i suoi confini e i Territori occupati. Per quanto riguarda il trattamento applicato dalla forze i sicurezza, è già fatto! Le forze di polizia hanno reso istituzionali due metodi chiaramente diversi di repressione delle manifestazioni e due diverse forme di detenzione e di arresto: uno per gli ebrei e un altro per i palestinesi, siano essi cittadini israeliani o sudditi dei Territori occupati. E, questo, in accordo con quei media israeliani che sono stati mobilitati al servizio delle forze di sicurezza per incitare la comunità ebraica contro gli arabi, individuati come il nemico. Gli esponenti della sinistra sembra ne abbiano avallato il linguaggio. Quando la maggioranza della popolazione israeliana (a prestare fede ai sondaggi) dimostra un senso di comprensione verso questi attacchi contro gli arabi, ecco che si mettono insieme le condizioni per instaurare un regime di apartheid.
Così, le contraddizioni secondarie interne alla società israeliana e le sue divisioni di parte risultano incoerenti. Passano in secondo piano, di fronte a "un problema arabo". Quando lo Stato non è più quello di tutti i cittadini, quando la cittadinanza non è più il cuore dello Stato, l’uguaglianza diventa un’illusione, quando non una frode. Quando un poliziotto o una guardia di confine si trova di fronte un manifestante arabo, non ricorre contro di lui a "strumenti discriminatori", ma si comporta semplicemente come di fronte a un nemico.
La sinistra e la brutalità contro gli arabi in Israele
Il fatto è che ogni volta che venivano assassinati cittadini arabi in Israele, la sinistra (o quella che così viene chiamata) era al governo e la destra era all’opposizione: il massacro di Kufr Qassem (1956), la Giornata della Terra (1976), come gli avvenimenti attuali si sono tutti verificati sotto governi laburisti. Da anni i cittadini arabi si sono lamentati per il comportamento di Alic Ron, comandante della polizia nei distretti settentrionali, ma nessuno della sinistra ha dato loro ascolto. il professor Ben Ami, ministro della sicurezza interna, oggi gli dà una pacca sulla spalla e gli assicura il suo pieno appoggio...
Le recenti manifestazioni all’interno di Israele, durante le quali sono state uccise 14 persone e centinaia di giovani sono stati feriti, non rappresentavano il primo caso in cui si è aperto il fuoco negli ultimi anni. Prima ci sono state la manifestazioni di Al Ruha, UM-Al-Sahali ed altre. E benché non vi siano manifestazioni che non debbano affrontare il fuoco nel settore arabo, in Israele tutto resta tranquillo. I recenti avvenimenti non rappresentano quindi una svolta, ma solo un momento in cui la quantità si è trasformata in qualità. Durante tutti questi avvenimenti la sinistra israeliana ha brillato per la sua assenza. Il suo era un silenzio sepolcrale quando il fuoco è stato aperto a Lydd, dove sono stato ferito personalmente. Né si è sentita alcuna condanna quando Alic Ron è ricorso alla violenza per realizzare la sua politica di demolizione delle abitazioni.
E’ il paternalismo della sinistra israeliana ad indurla a ripetere incessantemente i propri comportamenti estremisti. Non solo assume posizioni scorrette, ma - ed è la differenza con la destra - spera che gli arabi le accettino. Per questo la sinistra è delusa e si scandalizza ed è il motivo per cui essa va in caccia di "agitatori" da poter rimproverare. Così, noi che siamo favorevoli all’uguaglianza dei cittadini e che abbiamo un atteggiamento liberale contrastante con la politica identitaria, che insomma ci battiamo per una società civile, democratica ed ugualitaria, siamo improvvisamente diventati agitatori estremisti agli occhi dello Stato di Israele.
Lo scorso anno ho cercato di interessare tre quotidiani israeliani di primo piano al problema della crescente violenza poliziesca, ma nessuno si è dimostrato disponibile. I liberali israeliani sono colpiti solo quando è una folla di destra a mobilitarsi per uccidere gli arabi. Per questo la sinistra si è svegliata soltanto alla fine dei massacri di Nazareth (cominciati con una mobilitazione degli ebrei i Nazareth-Ilit); gli orrori l’hanno traumatizzata e poi, dopo che la polizia si è abbandonata a brutali violenze contro gli arabi, si è dimenticata della sua commozione. L’unica cosa che la sinistra sia stata capace di fare in quel caso è stato visitare le famiglie in lutto. Essa infatti si rifiuta di scegliere un campo contro l’altro e giudica addirittura inaccettabile una scelta del genere.
Il brutale comportamento nei confronti dei cittadini arabi è il riflesso dei valori che autorizzano una brutalità senza limiti nei Territori occupati. Sono questi stessi valori ad imporre un assoluto silenzio (quando non un esplicito sostegno) su tutte le misure prese dalla Forze di sicurezza , un silenzio che perdura mentre si stanno contando centinaia di uccisi e migliaia di feriti nelle recenti manifestazioni nei Territori occupati. Anche qui, gli avvenimenti hanno cominciato quando la polizia ha sparato senza alcun motivo su persone in preghiera nella moschea Al Aqsa.
L’appoggio della sinistra a Barak
Queste misure di una brutalità senza precedenti, cui in seguito si è aggiunto l’impiego di elicotteri da combattimento e di carri, sono state in genere accettate dall’opinione pubblica israeliana, che ha anche accettato la versione israeliana per quanto riguarda il processo di pace ("Non abbiamo partner per fare la pace") e il comportamento dell’esercito nei Territori occupati.
Sia dentro sia fuori la Knesset (il parlamento) avevamo sostenuto che il programma di Barak, portato alle stelle dopo la sua vittoria alle ultime elezioni, non poteva costituire una base per la pace. L’abbiamo ripetuto prima che Barak si recasse a Camp David e naturalmente dopo. Ma nessuno voleva ascoltare, perché tutti erano così felici che Natanyhau avesse perso le elezioni. Così la sinistra israeliana ha contribuito a rafforzare la lega antiaraba. Ha scommesso su una pace basata sui rapporti di forza esistenti e non sul principio di uguaglianza e di giustizia. Per questo essa non ha affrontato l’opinione pubblica israeliana esigendo una pace giusta e, anziché criticare le iniziative di Barak, ha sorretto le accuse contro i palestinesi che avevano il torto di respingere un accordo basato su uno Stato di apartheid suddiviso in cantoni. Sempre per questo la sinistra israeliana non solo si è limitata al programma di Barak, ma ha anche accettato il rinvio da lui imposto per vedere "se c’è o non c’è un partner per la pace". Con l’argomento della sicurezza inscritto nelle sue bandiere, la sinistra ha sospinto i militaristi al potere senza dedicare un solo pensiero al significato che assumevano le misure "politiche" decise durante gli ultimi mesi. Oggi possiamo verificare i risultati di questo atteggiamento. E tutto ciò dopo che nessuna voce si è levata contro la politica di massiccia colonizzazione, contro la demolizione delle case, contro la deportazione delle persone né contro le continue restrizioni dei loro spostamenti e del loro lavoro. Questi modi di procedere erano al di là degli interessi dei governi i Barak nel suo primo anno.
Questo vale anche per la questione siriana e libanese: era possibile lasciare la Siria e il Libano con un accordo di pace. Ma la sinistra israeliana ha celebrato il ritiro unilaterale anziché esercitare una pressione su Barak per imporgli la realizzazione di un accordo concepibile, ignorando costantemente ogni critica morale al suo programma.
La marcia di Barak verso la guerra
La guerra dichiarata da Israele all’Autorità palestinese è la prosecuzione della stessa politica con mezzi diversi. Essa era tendenzialmente inscritta nella politica di Barak fin dall’inizio. Si inscriveva nell’ultimatum da lui presentato ai palestinesi: tutto o niente; o Arafat firma immediatamente le condizioni di Barak, oppure niente, e cioè la guerra. Le "moderate pressioni fisiche" (incluse le minacce alla vita di Arafat!) rappresentano il seguito delle prediplomatiche avviate immediatamente dopo il vertice di Camp David. Pochissimi si sono uniti a noi in quei mesi in cui cercavamo, insistentemente, di far capire che nessun palestinese avrebbe potuto accettare un ultimatum del genere, che si trattava di una politica pericolosa che avrebbe portato direttamente alla guerra.
Nel 1982, dopo la guerra al Libano, c’è stato un tentativo di isolare Arafat dall’OLP. Nel 1987 in risposta si è avuta l’Intifada. Dopo il vertice (l’ultimo) di Camp David si è assistito a un rinnovato tentativo di isolare l’OLP costringendolo così a firmare una pace ingiusta. Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti. Barak e i suoi fautori non si sono accorti del pericolo in arrivo e sono convinti che saranno capaci di imporre il loro accordo ai palestinesi. Barak era contento delle sue relazioni diplomatiche e del successo riportato facendo passare Arafat per un individuo recalcitrante che respinge le sue "generose" offerte. Ma la sua generosità è un inganno: Barak rimane ancorato al suo discorso preelettorale, ai "quattro no!": no alla sovranità palestinese su Gerusalemme-Est; no al ritiro sui confini di prima del 5 giugno 1967; no allo smantellamento delle colonie (con l’80% dei coloni sotto sovranità israeliana); e un no definitivo a qualsiasi discussione riguardante il diritto al ritorno o ad ogni soluzione giusta del problema dei profughi. Per questo era del tutto prevedibile la sollevazione popolare.
La visita di Sharon alla moschea Al Aqsa non è che un dettaglio in questi incidenti, una ben modesta parte di cambiamenti ben più ampi in corso in Israele. E’ addirittura difficile dire se la visita di Sharon sia stata la causa diretta della rivolta o se Barak avesse permesso questa visita. Addirittura è più plausibile che sia stata la massiccia presenza della polizia intorno alla moschea e il massacro della gente che pregava ad Al Aqsa il giorno dopo a mettere fuoco alle polveri. Va ricordato che Sharon non cercava di provocare i palestinesi, ma il suo scopo era solo quello di mettere alla prova Barak, di valutare se egli tenesse davvero alla sovranità israeliana su quell’area. Barak e Ben Ami hanno spedito migliaia di poliziotti per scortare Sharon e il giorno dopo hanno fatto circondare la moschea, preparando così la sparatoria che si sarebbe conclusa con la morte di sette uomini e con decine di feriti. In tal modo superavano la prova imposta da Sharon per un governo di unità nazionale, ma fallivano completamente di fronte alla prova della pace. L’unità realizzata tra la polizia di Ben Ami e Sharon per invadere Al Aqsa resta l’unica base per un simile governo. Non ve ne è altra.
Israele aveva sperato che la polizia palestinese sarebbe stata una specie di milizia ai suoi ordini, con il ruolo di mantenere l’ordine israeliano nei Territori occupati. Israele trattava con l’OLP, ma si aspettava il suo appoggio contro il popolo palestinese. Sperava anche che Arafat si sarebbe comportato come Anton Lahad (capo dell’esercito del Libano meridionale che aveva collaborato con l’occupazione israeliana) e che potesse essere strumentalizzato per salvaguardare gli interessi israeliani nei Territori occupati. Sembra che le autorità israeliane sperassero che i poliziotti palestinesi si sarebbero affiancati a quelli che sparavano sul loro popolo e che non reagissero se fossero caduti sotto il loro tiro manifestanti palestinesi. Quando è diventato chiaro che l’OLP si sarebbe unito al suo popolo nel momento della crisi, che le vittime di Israele non avrebbero mandato in prigione le vittime dell’occupazione, il sogno si è infranto e Israele ha impiegato la forza. Ma a differenza dalla prima Intifada, visto che la separazione geografica delle forze tra l’esercito israeliano e il popolo palestinese c’è già stata, l’esercito non cerca solo di spezzare le ossa ai suoi avversari, ma spara e bombarda come in una guerra del Golfo su scala ridotta. E mentre Israele finge sorpresa di fronte al fatto che la polizia palestinese non apre il fuoco sui suoi ma cercano di difendere i manifestanti aggrediti dall’esercito israeliano.
Oggi i solo punti di contatto diretto tra l’esercito e i manifestanti sono Gerusalemme e i posti di controllo. Dal momento che l’esercito non ha deciso di riconquistare città e villaggi, li bombarda, Quando, come ad Al Aqsa, si verifica lo scontro diretto, diventa chiaro che l’occupazione continua e che Israele rimane Israele. E poco importa che il ministro si chiami Ben Ami o Sharon. Lo scontro principale si è svolto ad Al Aqsa, subito dopo la visita di Sharon. La polizia israeliana si è comportata come ha sempre fatto dal 1967: ha sparato e ucciso. Non è cambiato niente.
Abbiamo sempre detto che ci sono solo tre possibilità di accordo:
- la prima è la costituzione di due Stati, cioè l’istituzione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, comprendendovi Gerusalemme, con lo smantellamento delle colonie;
- la seconda sarebbe la costituzione di uno Stato democratico e laico, che consentisse ai due popoli di vivere insieme;
- la terza è una realtà di aprtheid.
Chiunque rifiuti le prime due soluzioni si orienta naturalmente verso la terza: l’apartheid. La sinistra israeliana non accettava il principio dei due Stati, ma sosteneva un accordo basato sulla divisione in due dei Territori occupati. Si scandalizza regolarmente alla sola idea di uno Stato democratico basato sull’uguaglianza dei cittadini e delle nazionalità. Così anch’essa porta all’apartheid, cioè sostiene la terza soluzione.
La conclusione evidente che la sinistra deve ricavare dai recenti avvenimenti è che invece di precipitare in un’ipocrita disperazione, bisogna avviare un esame di coscienza realmente autocritico. In questo contesto noi chiamiamo la sinistra israeliana a riprendersi e ad esprimere chiaramente le proprie obiezioni alla politica del governo, a battersi contro l’apartheid, contro l’oppressione sistematica della popolazione palestinese e contro il "piano di pace" di Barak. La politica di quest’ultimo non può infatti che invelenire la situazione e portare a un’escalation del conflitto. Non basta chiamare "le due parti a sedersi al tavolo dei negoziati". La sinistra deve dire chiaramente quali sono i valori e le norme morali senza il rispetto delle quali non potrà esservi pace.
Ma la sinistra israeliana non è l’unica su cui ricadano numerose responsabilità. Anche nel mondo arabo e nella società araba molti compiti ci attendono. La dichiarazione di guerra a un’intera nazione ha aperto le porte a ogni sorta di discorsi irrazionali, incluso quello di una guerra di religione. Questo discorso non ha ancora pervaso l’insurrezione nazionale, ma un pericolo del genere si profila nell’opinione pubblica e in certi media arabi. Le forze nazionali e democratiche della società araba non devono ignorare il fenomeno. Per difficile che possa essere, dobbiamo torcergli il collo nel corso stesso del doloroso processo di decolonizzazione.
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Azmi Bishara è deputato palestinese (arabo di cittadinanza israeliana) alla Knesset dal 1996. Dirige il Balad (Raggruppamento nazionale democratico). L’articolo che riproduciamo è ripreso dalla rivista mensile israelo-palestinese Between the Lines, pubblicata da Tikva Honig-Parnass e Tufic Haddad (PO Box 681, Gerusalemme. Abbonamento annuo: 45 dollari USA).
domenica 11 gennaio 2009
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Said
anche Hamas fa pulizia etnica... e ce l'ha scritto nel suo statuto!
che dire...
Said
A parte che non è vero quello che affermi poi, qui, si dà rilevanza alle azioni conseguenti ad una visione vecchia di qualche decennio.Quella sionista che è destabilizzante e fa morti con il fosforo bianco.
Said
Io penso che ci si possa accontentare anche di due nazioni, due Stati, anche se uno Stato binazionale evidenzierebbe meglio la questione sociale nascosta nelle guerre di nazioni o di religioni