sabato 28 febbraio 2009
Culture ed opinioni,
economia
Teoria del capitale e politica monetaria in Keynes
Mark Limon
” Esperto di Management e Marketing al limone”
Teoria del capitale e politica monetaria in Keynes
Fonte: HomoLaicus
Iniziamo un breve viaggio nelle teorie economiche e di come la materia viene trattata sul Web. Propongo un primo post tratto dal blog : http://marklimon.wordpress.com
Prossimo appuntamento con la scuola austriaca.
Teoria del capitale e politica monetaria in Keynes
Introduzione: la vendetta di Keynes
Se fosse un vecchio film western, la storia del pensiero di Keynes sarebbe giunto, all’inizio del ventesimo secolo, all’entrata in scena della cavalleria. L’idea che la mano pubblica possa rovesciare o almeno completare l’operare della mano invisibile era in via di definitiva sepoltura, e con essa ogni riferimento seppur blando a Keynes e al keynesismo, quando l’esplodere della crisi finanziaria ed economica mondiale, la più grave dal ‘29, ha scombinato la situazione, mettendo in discussione i dogmi più resistenti formatisi negli ultimi decenni.
Persino gli economisti si sono resi conto che “the best policy is not policy at all” è uno slogan utile a vincere il premio Nobel, ma inutile, completamente inutile, per analizzare i problemi economici reali e soprattutto per prospettarne una via di uscita[1]. Così la sepoltura di Keynes è stata quantomeno rimandata, forse a tempo indeterminato.
Di per sé questa sconfessione planetaria del laissez faire non riabilita certo Keynes e le sue incongruenze teoriche, ma almeno costringe a riflettere con più attenzione sul suo pensiero. Questo breve lavoro cercherà per l’appunto di analizzare le basi teoriche da cui l’economista di Cambridge partì per formulare quelle prescrizioni di policy che lo resero universalmente noto.
Lo scopo fondamentale di tutta l’opera di Keynes era quello di convincere che le vecchie idee e le vecchie ricette non funzionavano più, anche a costo di incoerenze e aporie teoriche fino al celebre detto “a lungo termine siamo tutti morti”, con cui in un certo senso si liberava di ogni critica alle proprie proposte.
Keynes e la teoria neoclassica del capitale. Un compromesso poco duraturo.
Keynes ha sempre ammesso di essere stato educato e formato nella “cittadella” dell’economia, in quella Cambridge che allora costituiva la quintessenza dell’ortodossia economica. In tutte le sue opere possiamo vedere un tentativo di allontanarsi dalla concezione dominante che comunque costituiva la base di partenza della sua analisi. Non fa eccezione la General Theory, che contiene un miscuglio di assunzioni ortodosse e di conclusioni eretiche. Da nessuna parte questa incongruenza è più visibile che nell’analisi dei fondamenti della teoria.
Le basi di una teoria che aspiri ad analizzare il processo produttivo capitalistico sono necessariamente la teoria del valore e della distribuzione e la teoria del capitale. È quindi proprio analizzando queste teorie che si possono trovare le più forti contraddizioni di Keynes. Senz’altro la sua analisi partiva da una critica radicale dei ‘classici’, ovvero di quegli economisti che accettavano la legge di Say, tuttavia Keynes non riuscì a rompere con questa tradizione. Soprattutto non riuscì a proporre un’alternativa abbastanza robusta da sostituirla. Lo dimostra il fatto che i suoi allievi che non tornarono all’ortodossia cercarono in altri filoni la solidità e la coerenza analitica che mancavano nelle teorie di Keynes.
Nonostante la sua enorme complicazione formale, l’attuale teoria economica dominante, al fondo, non va oltre le intuizioni dei primi economisti liberali riguardo al ruolo delle variazioni dei prezzi nell’equilibrare i mercati. In ogni mercato il prezzo si muove nella direzione ‘giusta’, ovvero in modo da eliminare l’eccesso eventuale di domanda e offerta. Poiché questo avviene in ogni mercato, una situazione di sovrapproduzione generale è impossibile (legge di Say).
In particolare, nei due mercati più importanti, quelli dei “fattori produttivi”, il prezzo, ovvero, rispettivamente, salario e interesse, si muove in modo da combinare efficientemente domanda e offerta di lavoro, risparmi e investimenti. Un eccesso di offerta di lavoro, attraverso una diminuzione dei salari, evita l’insorgere della disoccupazione involontaria[2]. Allo stesso modo, un eccesso di risparmio, tramutandosi in una riduzione del saggio d’interesse (per mezzo di considerazioni sulla ‘time preference’) conduce a un ristabilirsi dell’equilibrio.
Come ricordato, Keynes non si opponeva del tutto alla teoria del capitale dominante, tuttavia rifiutava esplicitamente la legge di Say. Egli negava che il tasso d’interesse fosse da considerarsi determinato dalla domanda e offerta di risparmio perché l’ammontare del risparmio è esso stesso funzione del reddito complessivo e della sua distribuzione. Il nesso causale è dunque rovesciato: è l’investimento la variabile indipendente e l’interesse è un saggio monetario che dipende dalla politica monetaria e dall’atteggiamento del pubblico verso il denaro.
Per cercare di fare chiarezza sui punti fin qui sollevati partiremo dalla domanda di moneta, un argomento su cui Keynes diede a più riprese contributi di prim’ordine. Passeremo poi alla teoria del capitale e alla politica economica.
La moneta e il capitale
Nello schema marginalista la moneta non gioca nessun ruolo. Essa è un velo, una finzione cartacea utile per i servizi che offre nella circolazione delle merci. Non offrendo alcuna utilità diretta, viene usata dagli agenti solo come mezzo di pagamento e viene detenuta solo a scopo di transazione. Keynes vi aggiunse l’aspetto speculativo, modificandone radicalmente il ruolo. La moneta non è né un velo né neutrale in Keynes, essa è un’attività al pari delle altre. Il futuro è incerto, nessuno sa che cosa succederà ai tassi tra qualche mese o anno. In presenza di incertezza, sorge la preferenza per la liquidità, poiché la moneta è l’asset più liquido (e meno remunerativo).
Essendo la moneta un’attività, questa preferenza è pur sempre una funzione del livello del tasso d’interesse. Da un lato, essa pone un limite al funzionamento della politica monetaria (se i tassi scendono troppo, si cade in una situazione di trappola della liquidità, in cui il pubblico è disposto a detenere qualunque quantità di moneta offerta[3]), dall’altro è strettamente legata alle aspettative e dunque può essere ‘manovrata’ attraverso di esse. Se il pubblico è spinto ad aspettarsi un rialzo dei tassi, per esempio per il surriscaldarsi dell’economia, ridurrà il tesoreggiamento per guadagnare sull’aumento del saggio d’interesse. In sostanza per far variare la quantità di moneta tesaurizzata occorre agire:
a) sul tasso d’interesse (l’offerta di moneta)
b) sulla velocità di circolazione
c) sull’aumento del reddito
d) sulle aspettative, ovvero su come il pubblico interpreterà la politica monetaria. In sintesi, la moneta ha un ruolo di fondo di valori che elimina il legame diretto risparmi-investimenti: le divergenze tra le decisioni di investire e il livello di risparmio di pieno impiego non si equilibrano semplicemente con la variazione dei tassi, anche perché il sistema creditizio ha una sua capacità autonoma di creazione di moneta. In un’economia monetaria, la separazione tra le decisioni di risparmio e investimento è evidente, tuttavia, la teoria ortodossia, nel modo più organico con la teoria del tasso d’interesse “naturale” di Wicksell, cercava di dimostrare che l’elasticità del mercato dei beni capitali aggiustava tutto. La rottura centrale è dunque sul saggio d’interesse.
Abbiamo così delineato i fattori alla base della domanda di moneta. Tuttavia occorre ancora spiegare la remunerazione del fattore capitale per poter valutare il ruolo complessivo che secondo Keynes è affidato alla politica monetaria.
Secondo Keynes, quando un investitore deve decidere se investire o meno, considera la differenza che c’è tra quanto costa l’investimento, ovvero il tasso d’interesse, e quanto rende, ovvero quella che chiamò efficienza marginale del capitale. Con essa intendeva non la produttività fisica, ma il guadagno relativo legato alla scarsità sociale del fattore in un dato periodo di tempo.
L’efficienza marginale del capitale è dunque il saggio di sconto che attualizza il valore dell’asset considerato rendendolo uguale al suo prezzo d’offerta. Si tratta di un efficienza individuale del bene capitale, non di un’efficienza generale. E’ chiaro già da questa definizione che le aspettative giocano un certo ruolo anche qui. Infatti nel calcolo attuariale rientra una previsione sui tassi futuri attesi, e dunque sullo stato delle aspettative a lungo termine.
Dietro a questa idea di eguaglianza tra efficienza marginale del capitale e tasso d’interesse, c’è l’idea di Keynes di un mercato organizzato in cui l’operare degli arbitraggisti impedisce situazioni di guadagno certo per lunghi periodi.
In sintesi, i capitalisti investono finché l’efficienza marginale del capitale non eguaglia il tasso d’interesse. Immaginando di investire in ordine decrescente di efficienza, è ovvio che una riduzione dei tassi aumenta gli investimenti. Ma Keynes, a questo che può sembrare un meccanismo ‘classico’, pone almeno due obiezioni. La prima è che i rendimenti futuri sono incerti e dunque l’attualizzazione è aleatoria. La seconda è che finché una quota del fattore è inattiva, non c’è produttività marginale decrescente. Di nuovo, vediamo come l’instabilità delle aspettative può risultare in effetti ‘perversi’ al variare del tasso d’interesse.
Da cosa è dato il tasso d’interesse? Dalla scarsità del capitale. Ma soprattutto, spiegava Keynes, è tale scarsità che è determinata dai tassi. Abbassare i tassi riduce la scarsità e aiuta gli investimenti, non viceversa. L’idea neoclassica di un capitale produttivo in senso fisico (produttività marginale) viene rigettata. Inoltre viene anche rifiutata l’idea che un investitore possa muoversi lungo la frontiera delle tecnologie (ovvero del rapporto di intensità capitalistica) al variare dei tassi e dei salari. È piuttosto nella fase del rimpiazzo dei beni capitali che il tasso d’interesse entra come fattore decisivo nella scelta della tecnica produttiva.
La teoria del capitale
Nell’analisi classica il valore delle merci è determinato dai costi di produzione. Il costo del capitale non è altro che l’insieme dei costi socialmente necessari per rimpiazzare il mezzo di produzione in questione. I profitti derivano da una caratteristica storico-sociale del sistema: la divisione tra mezzi di produzione e classe produttiva. In Marx questa distinzione appare ancora più chiaramente e il profitto è la realizzazione del pluslavoro, ovvero del lavoro che la classe operaia è costretta ad erogare gratuitamente e di cui si appropriano i capitalisti, possessori dei mezzi di produzione.
Negli economisti neoclassici il capitale, come ogni altro fattore produttivo, ha una remunerazione ‘fisica’ basata sulla sua produttività marginale. Il fatto è che mentre è abbastanza agevole capire che cosa sia la produttività del lavoro nessuna teoria del capitale coerente è mai stata prodotta finora. Le due proposte centrali, quella di Walras che partiva dai singoli beni capitali, e quella di Wicksell che partiva dal capitale in termini di valore, si sono dimostrate insostenibili e logicamente viziate.
Sebbene ai tempi di Keynes questo dibattito non fosse stato sviluppato appieno, senz’altro l’economista britannico conosceva le critiche mosse alla teoria del capitale neoclassica, soprattutto per la sua amicizia con Sraffa che a Cambridge stava ponendo le basi per un recupero teorico dell’economia ricardiana. Keynes così, doveva elaborare una teoria del capitale avendo contezza delle ineliminabili debolezze della dottrina marginalista.
Quale teoria del capitale emerge dalla General Theory? Keynes non affronta mai direttamente la questione. Piuttosto discute del problema dei beni capitali sempre dibattendo del ruolo della moneta e delle variazioni dei tassi. Come si è detto, Keynes propose l’idea di efficienza marginale del capitale, dopo aver usato in un primo tempo la definizione di produttività marginale, proprio per distinguere la propria concezione da quella neoclassica.
Tuttavia, Keynes non riuscì ad affrontare e risolvere il problema. In realtà, nella General Theory troviamo una efficace descrizione di come funzionano i mercati finanziari e monetari, e dunque di come l’arbitraggio lega valore della moneta, tassi e remunerazione dei diversi beni capitali, ma mai una spiegazione della natura del profitto.
Gli economisti ortodossi successivi definirono questa mancanza come una ‘assenza di microfondazioni’: Keynes affrontò sempre i problemi della domanda complessiva, del mercato risparmi-investimenti ecc., senza verificare se la sua analisi contrastava con le ipotesi fondanti della teoria neoclassica.
Che si prenda per buona o meno l’impostazione neoclassica, è indubbio che una teoria del processo produttivo nel suo complesso deve scaturire dalle ipotesi che fondano la teoria diciamo così ‘pura’.
Il fatto che Keynes si disinteressasse di questi aspetti era indice della crisi in cui versava la teoria microeconomica, ovvero la teoria economica per eccellenza, già allora. Ad ogni modo, questa carenza di analisi fa sì che, in Keynes, nell’analisi delle scelte di investimento, non appaia evidente quale sia uno dei corni della valutazione: il rendimento.
Se analizzando la legge di Say Keynes ha dimostrato che la spiegazione in termini di domanda e offerta di fattori produttivi non ha senso, tuttavia non è riuscito a porre le basi di una spiegazione alternativa. Parlò, discutendo della scarsità, di “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità di capitale”, senza però analizzare realmente che cosa fosse questa scarsità[4].
La teoria neoclassica ritiene che ogni merce sia producibile impiegando quantità variabili dei diversi fattori produttivi. La proporzione degli ingredienti finali dipenderà dallo stato dei diversi mercati e dunque dalla domanda e l’offerta. Keynes attaccò questo meccanismo soprattutto nel mercato del lavoro.
La produttività fisica del capitale in Keynes non esiste. Nella teoria tradizionale, le decisioni di investimento si adattano alle variazioni del risparmio a sua volta connesso ai tassi. Keynes sembrò accettare parzialmente questa teoria con la nozione citata di efficienza marginale del capitale, ma rifiutò il ruolo del tasso d’interesse.
Le critiche che Keynes fece alla teoria del capitale neoclassica riguardarono sostanzialmente alcuni aspetti secondari della teoria, come l’incertezza delle aspettative, la rigidità di alcuni prezzi, la non perfetta riproporzionabilità del processo produttivo. Invece l’aspetto fondamentale, ovvero l’impossibilità di spiegare alcun movimento rilevante dell’economia per mezzo di domanda e offerta, restò come in un limbo. Ne venne fuori una teoria mista di pregiudizi neoclassici e intuizioni eretiche, che finì sotto attacco da tutte le parti.
La teoria della distribuzione
La teoria dei fattori produttivi marginalista è anche una teoria della distribuzione. Gli economisti neoclassici non sono mai riusciti a formulare una teoria coerente a riguardo, ovvero una teoria che salvaguardasse il rendimento uniforme dei beni capitali e il movimento nella direzione ‘giusta’ nella variazione dei prezzi.
Alla fine, tutte le teorie della distribuzione neoclassiche si perdono in ragionamenti circolari: i prezzi sono necessari per definire il valore dei beni capitali e viceversa (lo stesso problema non si pone per i fattori misurabili in termini fisici: lavoro e terra[5]).
A differenza del fattore lavoro, un bene capitale è il risultato di un investimento e dunque, nella teoria neoclassica, di un certo ammontare di risparmio che si è cristallizzato in un certo asset. Di qui l’idea che le variazioni dei tassi influenzino l’investimento e il valore dei beni capitali.
A tutto ciò, l’analisi della moneta fornita da Keynes assesta un colpo mortale. In ultima analisi, la distribuzione del reddito, ovvero il livello dei salari e dell’occupazione, entra nelle decisioni di investimento, non ne è conseguenza.
L’introduzione del fattore capitale non è coerente con gli assunti della teoria neoclassica della distribuzione. Non rompendo con questa tradizione, Keynes non riuscì perciò a fondare le sue proposte alternative. I noti problemi del ‘ritorno delle tecniche’ hanno posto definitivamente in luce queste debolezze.
Domanda e offerta di fattori produttivi non possono spiegare la distribuzione del reddito in una società capitalistica, qualunque sia la precisione con cui gli agenti prevedono il futuro.
Keynes interpretò i fattori monetari, che pure sono importanti, come un disturbo dell’equilibrio che dipendeva da meccanismi apparentemente ortodossi. Almeno all’inizio, Keynes di fatto dipinse una situazione in cui vi sarebbe una tendenza all’equilibrio che le autorità devono assecondare aggiustando l’offerta di moneta.
Ma anche in tal caso, le ricette di policy, che pure erano sostanzialmente adatte ai problemi che si dovevano affrontare, non erano basate su una teoria coerente del capitale.
Come si può accrescere qualcosa la cui misurazione è impossibile? Potrebbero i fisici aumentare il passaggio di corrente elettrica in un filo elettrico se non sapessero misurare questa corrente? Ovviamente no, e gli economisti si trovano proprio in questa situazione, dato che i metodi con cui la teoria ortodossa pretende di misurare il valore dei beni capitali sono tutti logicamente infondati.
Certamente Keynes era almeno parzialmente conscio di queste debolezze e di questi incoerenze. Ma, come ricordato, non se ne preoccupava. Il suo scopo non era fornire una misura coerente del capitale ma proporre delle nuove strade con cui tentare di uscire dalla depressione e dalla deflazione. In definitiva, il mercato dei capitali in Keynes esiste, ha un ruolo centrale per comprendere il ciclo economico e i meccanismi di trasmissione della politica monetaria, ma non ha una radice teorica coerente.
La fiducia e la politica monetaria
Una volta compreso il meccanismo che sposta i flussi di capitale e che anima il mercato risparmi-investimenti, si può capire quale importanza Keynes desse alla ‘fiducia’. La grandezza degli investimenti dipende, come ricordato, dalla relazione tra tassi ed efficienza marginale.
Perciò diviene fondamentale lo stato della fiducia, la psicologia, gli “animal spirits”. Ognuno entra sul mercato cercando di capire come si comporteranno gli altri. Questo provoca ondate di vendite e acquisti che rendono i mercati, soprattutto quelli finanziari, molto instabili.
Il ruolo attribuito da Keynes alle aspettative è criticato per ragioni diverse. Secondo alcuni, esse introducono un elemento di indeterminazione soggettiva che distrugge ogni scientificità della teoria; secondo altri le aspettative incerte sono incompatibili con l’ipotesi di comportamento razionale del consumatore. A entrambe queste critiche Keynes avrebbe risposto con la celebre distinzione tra rischio e incertezza.
E’ bensì vero che nel lungo periodo ciò che conta sono le posizioni ‘normali’ dell’economia e che, una volta effettuati tutti gli aggiustamenti, le aspettative degli agenti sono corrette, ma nessuno sa veramente che cosa accada nell’immediato futuro e come già osservo sin dal suo saggio sulla riforma monetaria:
“Nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti si assegnano un compito troppo agevole e troppo poco utile se, nei periodi di tempesta, riescono a dirci solamente che una volta passato l’uragano, il mare sarà di nuovo piatto.”
Per i classici, tutte le turbolenze di breve periodo, compreso il ruolo di domanda e offerta, si bilanciavano sostanzialmente nel medio e lungo periodo e potevano dunque, almeno a un primo livello di analisi, essere trascurate. Certamente, nell’analisi di breve periodo, le aspettative hanno un certo peso. Il policy-maker, poiché nessuno ha in realtà una conoscenza perfetta del futuro, può agire per cercare di stimolare l’economia.
Tuttavia, occorre analizzare la natura e la fonte di queste aspettative. Gli ‘animal spirits’, o il ‘market sentiment’, come gli analisti finanziari dicono oggi, non sono altro che la risultante della direzione in cui si muove l’economia reale. Senza entrare nei meccanismi di formazione delle aspettative, è però ovvio che se si decide di investire meno è perché si sta consumando e vendendo meno. Significa questo che si possono trascurare le considerazioni sulle aspettative? Certamente no. Pur essendo determinate in ultima analisi dall’andamento dell’economia reale, esse acquisiscono una relativa indipendenza e interagiscono con l’economia reale.
Questa interazione assume particolare rilievo sui mercati finanziari, dove basta la previsione di un accadimento futuro per il verificarsi di poderosi movimenti a prima vista irrazionali. E d’altronde, chiunque abbia visitato un floor di una borsa avrà visto gli animal spirits nella loro forma più diretta e cruda. Ma l’indipendenza è, come detto, solo relativa.
La teoria deve saper cogliere l’autonomia del fattore ‘fiducia’ ma solo nel contesto di una spiegazione generale del funzionamento ciclico del capitalismo. Altrimenti si può credere che la politica monetaria agisca nel vuoto, che la ‘fiducia’ possa essere creata senza i necessari presupposti reali e si indirizza la teoria verso una visione soggettivista del funzionamento del capitalismo.
Secondo Keynes, in un periodo recessivo lo Stato dovrebbe agire in una serie di modi per ristabilire la fiducia degli investitori, innanzitutto rilanciando la produzione e abbassando i tassi d’interesse. Ma indipendentemente dalla scelta sugli strumenti concreti e sugli obiettivi ‘intermedi’, come vengono definiti, il target finale è proprio la fiducia. Se il pubblico ha fiducia che la manovra intrapresa dal governo funzionerà, e ricomincerà dunque a consumare ed investire, l’economia ripartirà indipendentemente dalle qualità intrinseche della manovra stessa.
In sé, la manovra sui tassi, sulla liquidità, sulla politica fiscale, servono ad aumentare la domanda complessiva, ma il punto centrale è la credibilità della manovra. Se il pubblico teme l’inefficacia della politica, la politica sarà effettivamente inefficace. La ‘manovra sui tassi’ non è dunque una panacea.
Innanzitutto si deve inserire in un processo di schiacciamento progressivo della rendita finanziaria, senza il quale l’abbassamento dei tassi sarà di breve durata; in secondo luogo deve trovare supporto nella risposta degli investitori. Un basso tasso d’interesse non è di per sé sufficiente a rilanciare gli investimenti se il saggio di profitto atteso è basso. E questo saggio non deriva dalla produttività fisica delle nuove macchine ma semplicemente da quanto il capitalista riuscirà a vendere, ovvero dai problemi che Marx avrebbe definito di realizzo del profitto. Un basso tasso d’interesse che si accompagni a un calo dei consumi, lungi dal rilanciare l’economia, potrebbe spingerla verso la deflazione. E’ la già citata situazione di trappola della liquidità.
Incoerenze ed esortazioni
La prima guerra mondiale distrusse il gold standard e i meccanismi di aggiustamento automatico dell’economia, o forse, sarebbe meglio dire, ne dimostrò, in modo definitivo, i limiti. La disoccupazione in Inghilterra, ma non solo, raggiunse un quarto della forza-lavoro. Il caos monetario internazionale, le svalutazioni concorrenziali, il protezionismo e una politica monetaria deflazionista concorrevano al disastro. Il sistema rimaneva in un equilibrio stabile di sottoccupazione.
In tutto ciò, l’ortodossia liberale dell’epoca, che peraltro regna ancora oggi, sosteneva che non bisognava fare nulla. Le spese del governo non avrebbero migliorato alcunché, essendo comunque finanziate dai privati, la disoccupazione era esclusivamente volontaria ecc.
Keynes assunse una posizione critica verso l’ortodossia molto prima di formulare le sue tesi in modo compiuto. Ad esempio, nel famoso scritto The End of Laissez Faire (1926) Keynes sostenne la necessità di abbandonare il liberismo classico: lo Stato doveva acquisire un ruolo essenziale. Per quanto ricordato prima sulla moneta, il pubblico non domanda la moneta solo per scopo transattivo, ma anche in base allo stato di fiducia, ovvero alle attese sui tassi e sulla produzione complessiva.
Da ciò ne discende che la banca centrale non deve seguire la teoria quantitativa della moneta per fissare gli obiettivi di offerta di moneta, ma le necessità di finanziamento dei nuovi investimenti. Ciò crea inflazione? In un’epoca di durissima deflazione, come gli anni Trenta, un simile pericolo sembrava ridicolo. Inoltre, l’aumento complessivo del livello dei prezzi permetterebbe, secondo Keynes, di abbassare i salari reali perché le parti sociali contrattano solo un salario monetario ed è ben più difficile abbassare i salari per via diretta.
Tuttavia, anche in questo caso il meccanismo può valere in un’ottica di breve periodo. In media, l’inflazione attesa e l’inflazione realizzata devono coincidere. Ad ogni modo, le autorità monetarie possono abbassare il saggio d’interesse espandendo l’offerta di moneta. In tal modo incoraggiano gli investimenti.
L’aumento della domanda di moneta e di spesa pubblica accresce il consumo (moltiplicatore) e ciò accresce i profitti. Questi a loro volta alimentano la fiducia degli imprenditori e li inducono ad accrescere l’occupazione. Al fondo di tutto ciò c’è l’idea di Keynes che la produzione si adegua al livello atteso di domanda complessiva. Lo Stato deve dunque intervenire sulle decisioni di spesa, convincendo il pubblico a spendere di più e spendendo esso stesso. In tutto ciò, la variazione relativa dei prezzi conta ben poco e dunque il meccanismo di aggiustamento principe della scuola marginalista è inutile.
Abbiamo descritto il meccanismo definito tradizionalmente “keynesiano” di condurre la politica monetaria. Tuttavia occorre ricordare che col passare del tempo, Keynes mostrò scetticismo riguardo all’efficacia della politica monetaria (per via del ruolo della speculazione, del legame solo indiretto tra offerta di moneta ‘pubblica’ e complessiva, del ruolo indipendente del canale creditizio, e infine delle attese degli investitori).
In sintesi, Keynes manifestò sempre più dubbi sulle capacità autoregolative del mercato. L’intervento indiretto dello Stato non bastava più a riportare la fiducia. Per questo giunse alla fine alle due famose proposte che riguardavano il livello degli investimenti (“socializzazione degli investimenti”) e la redistribuzione del reddito (“l’eutanasia del rentier”).
Sarebbe interessante chiedersi perché Keynes, che pure conosceva almeno sin dal 1928 le tesi che Sraffa esporrà poi in Produzione di merci a mezzo di merci, non ne fece uso per la ricostruzione teorica delle proprie proposte. La ragione è che temeva di non essere ascoltato. Il calcolo che fece fu che occorreva rompere con l’ortodossia il meno possibile di modo che i messaggi pratici, che erano la cosa che veramente gli stava a cuore, passassero come meno eretici possibile.
La ricostruzione teorica di Sraffa, che rompe completamente con le teorie della domanda e dell’offerta, avrebbe probabilmente relegato Keynes “nel mondo sotterraneo di Carlo Marx, di Silvio Gesell e del maggiore Douglas”, come disse nella General Theory, da cui mai avrebbe potuto spostare l’asse della politica economica mondiale. Questa è la ragione per cui l’opera massima di Keynes, pur piena di contraddizioni e incoerenze, ebbe un impatto grandioso, un impatto che nessun modello ‘microfondato’ e logicamente perfetto di oggi ha mai minimamente avvicinato.
In conclusione, la tesi centrale di Keynes è che il tasso d’interesse dipende dall’interazione tra la politica monetaria e le aspettative sui tassi futuri, ovvero, tra l’altro, sulla fiducia nell’efficacia della politica futura. Esso dunque “è un fenomeno altamente psicologico”.
Le uniche vere radici nelle variazioni dei tassi sono le opinioni prevalenti sul mercato. Un periodo di alti tassi, rende il capitale più ‘scarso’ e gli investimenti più difficili. L’efficienza marginale e gli animal spirits determinano il livello degli investimenti e dell’occupazione. Livelli di sottoccupazione stabili sono la conseguenza dell’interazione di questi fattori. La politica monetaria ha un ruolo nel ridare fiducia agli operatori economici, rilanciando i consumi e gli investimenti. Lo Stato, in definitiva, deve salvare il capitalismo dai suoi problemi.
Che i mercati non siano quelle banali macchine per comporre preferenze e tecnologie che si immagina l’ortodossia marginalista è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, occorre penetrare nell’incoerenza centrale del pensiero keynesiano, la sua dipendenza da una teoria dei fattori produttivi insostenibile. Solo sostituendo queste debolezze si possono fondare solidamente politiche economiche alternative, che si basino sul ritorno alla piena occupazione anziché sul bilancio in pareggio. Per far questo occorre riprendere il filo interrotto dei classici e di Marx.
Bibliografia
Delli Gatti D., Moneta, accumulazione e ciclo, 1994
Dobb, Storia del pensiero economico, Editori Riuniti 1975
Garegnani P., Valore e domanda effettiva, Einaudi 1979
Hansen A. H., Guida allo studio di Keynes, Giannini 1977
Keynes J. M., Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta, Utet 1978
Keynes John M., Come uscire dalla crisi, Laterza
Keynes John M., Corrispondenza politica, CEDAM
Keynes John M., La fine del «Laissez-faire» e altri scritti, Bollati Boringhieri
Keynes John M., Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Sellier
Kalecki Michal; Keynes John M. , Contro la disoccupazione, Unicopli
Keynes John M.. L’assurdità dei sacrifici, Manifestolibri
Keynes John M., Trattato sulla probabilità, CLUEB
Lopokova Lydia - Keynes John M., Lydia e Maynard. Lettere (1923-1925), Archinto Kregel J. (a cura di), Nuove interpretazioni dell’analisi monetaria di Keynes, 1991
[1] Se è ingiusto speculare sulle disgrazie altrui, non si può fare a meno di osservare che il collasso dell’hedge fund LTCM avvenuto nel 1998, gestito tra l’altro da due economisti Nobel per l’economia, ha confermato, se ce ne fosse bisogno, che le lezioni della realtà si impongono con la cruda legge del fallimento, anche su questi elementi. Chi non ricorda la fine che fece Fischer quando osò speculare in Borsa? Decisamente l’economia ortodossa non è una buona base per arricchirsi sui mercati finanziari! (torna su)
[2] In questo lavoro non ci occuperemo della teoria dei salari di Keynes. Notiamo comunque che anche in tal caso l’economista britannico rimase letteralmente a metà strada, concedendo all’ortodossia che i salari dipendessero dalla produttività marginale del lavoro ma non che la disoccupazione fosse volontaria. Di qui il fraintendimento, davvero comune, secondo qui lo schema di Keynes coincide con quello neoclassico se solo si ipotizza la rigidità verso il basso dei salari. (torna su)
[3] Vale la pena osservare che se una volta questa situazione era considerata di scuola, l’esempio del Giappone nell’ultimo decennio ha dimostrato che è una situazione che può davvero darsi nella realtà. (torna su)
[4] Per esempio, in un noto brano della General Theory, Keynes scrive: “se il capitale diviene meno scarso, diminuirà il suo rendimento in eccedenza del costo, senza che il capitale sia divenuto meno produttivo, almeno in senso fisico. Sono quindi vicino alla dottrina pre-classica, che ogni cosa è prodotta dal lavoro…e dai risultati del lavoro passato, incorporati in attività capitali” (ediz italiana p. 376). In poche righe, troviamo indicazioni di diverse teorie confliggenti tra loro. Keynes sembra credere che il capitale sia produttivo anche in senso fisico, però si richiama alla concezione del capitale come lavoro incorporato; infine parla di scarsità come funzione del saggio d’interesse. Che tutto ciò non possa stare insieme va da sé. (torna su)
[5] Cfr., sul punto, P. Garegnani, Valore e domanda effettiva, par. 5. Einaudi
John Maynard Keynes
Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
John Maynard Keynes, primo Barone Keynes di Tilton (1883 – 1946), economista britannico.
È meglio che un uomo sia tiranno con il suo conto in banca che con i suoi concittadini.
Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi. (citato in Sebastiano Maffettone, Ricchezza e nobiltà, in L’Espresso n. 47 anno LII del 30 novembre 2006)
L’importanza dei soldi deriva essenzialmente dall’essere un legame fra il presente ed il futuro.
Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto. (da Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta)
Le persone timide in posizione di responsabilità sono un passivo per la nazione. (citato in Federico Caffè, Scritti quotidiani, 2007, intervista del 14 novembre 1979, p. 128)
Lo studio della storia del pensiero è un preliminare necessario per raggiungere la libertà di pensiero.
Non so, infatti, cosa renda un uomo più conservatore: non sapere nulla del presente oppure nulla del passato.
Ma questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti.
Non c’è niente di male nello sbagliarsi di tanto in tanto, specialmente se ti scoprono subito.
Non so cosa sia che rende un uomo più conservatore: non conoscere nulla tranne il presente, o nulla tranne il passato.
Ogni volta che risparmi 5 scellini togli a un uomo un giorno di lavoro.
mercoledì 25 febbraio 2009
Umorismo
Il Fragolone
Ma sapete cos'è il lato B?
Giusto punirsi e punire l'umanità in una giornata grigia torinese
Giusto punirsi e punire l'umanità in una giornata grigia torinese
lunedì 23 febbraio 2009
Umorismo
L'inflazione per Scajola
Scajola (al TG2):
"La diminuzione dell'inflazione non deriva da un calo dei consumi ma da una diversa modalità di spesa da parte dei cittadini."
E poi quando dico che dovremmo impiccarli tutti all'albero più alto la gente mi guarda pure interdetta.
p.s.
preso al volo su un forum, il commento non è il mio
"La diminuzione dell'inflazione non deriva da un calo dei consumi ma da una diversa modalità di spesa da parte dei cittadini."
E poi quando dico che dovremmo impiccarli tutti all'albero più alto la gente mi guarda pure interdetta.
p.s.
preso al volo su un forum, il commento non è il mio
CRONACA,
Diritti civili
Criminalità, xenofobia un articolo di Ricolfi e quello che pensa Penati
"Sul tasso di criminalità dei cittadini stranieri è difficile lavorare con statistiche precise, perché si ignora il numero esatto degli irregolari, però la situazione è piuttosto chiara. Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6). Fino a qualche anno fa la pericolosità degli stranieri, pur restando molto superiore a quella degli italiani, era in costante diminuzione, ma negli ultimi anni questa tendenza sembra essersi invertita: la pericolosità degli stranieri non solo resta molto superiore a quella degli italiani, ma il divario tende ad accentuarsi.
Resta il problema della violenza sessuale e degli stupri. Qui la prima cosa da dire è che i mass media sono morbosamente attratti dalle violenze inter-etniche - lo straniero che stupra un`italiana, l`italiano che stupra una straniera e riservano pochissima attenzione alle violenze intra-etniche, che a loro volta sono spesso intra-famigliari (donne violentate da padri, zii, suoceri, partner più o meno ufficiali). Ma i mass media, a loro volta, amplificano una distorsione che è già presente nelle denunce:
l`assalto di un branco di adolescenti a una ragazzina all`uscita da scuola ha molte più probabilità di essere denunciato di quante ne abbiano le vessazioni di un padre-padrone, non importa qui se dentro un campo nomadi o in una linda villetta piccolo borghese.
Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che - anche qui - il divario si sta allargando: l`ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio relativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004). "
Questo è l'estratto di un articolo che Ricolfi dedica al problema "sicurezza e stupri" sulla Stampa di un paio di giorni fa.
La cosa che mi è saltata all'occhio è la disinvoltura con cui si usano i numeri ed a questi si associano giudizi e si sparano sentenze.
In particolare sulla questione stupri Ricolfi afferma che :
"Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che - anche qui - il divario si sta allargando: l`ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio relativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004)."
La statistica a cui fa riferimento lui (fonte ISTAT) è la stessa che fu commentata sul corriere della sera in due diversi articoli:
Questo è un primo estratto che potete trovare qui
"Non più del 10% degli stupri commessi in Italia sono attribuibili a stranieri. Lo stima l'Istat. Secondo l'istituto di statistica, il 69% degli stupri sono opera di partner, mariti o fidanzati; solo il 6% sono opera di estranei. Se anche considerasse che di questi autori estranei il 50% sono immigrati, si arriverebbe al 3% degli stupri, ha sottolineato Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell'Istat."
Questo un secondo incipit che potete trovare qui:
"Duecento stupri o tentati stupri al giorno nel 2006, 74mila in dodici mesi. Scavando nella memoria delle donne, in un arco di tempo molto più lungo, la dolorosa contabilità segna 482mila stupri - subiti, nel 67 per cento dei casi, dal proprio marito, fidanzato o convivente"
Quello che mi ha colpito nella prosa di Ricolfi è l'uso che lui fa della propensione allo stupro, da parte degli stranieri, che è 14 volte superiore a quella degli italiani.
Cosa significa esattamente? A dare un significato alle parole io interpreto la frase in questo modo : fatto 1 la propensione al reato (stupro in questo caso) da parte di un soggetto, se questo è straniero la stessa sale a 14.
Come mai allora non c'è rispondenza tra dati statistici, denunce e messaggio?
Come fa a misurare la propensione e a dargli quel valore?
Probabilmente a Ricolfi in realtà non interessa affatto parlare di quel reato, del significato e dei valori che si porta dietro indipendentemente da chi lo commette.
Però, visto che il clima culturale lo permette, inserisce la variabile xenofoba (in modo rozzo e non fornendo niente che faccia capire e conforti la sua tesi) ed prosegue così nella lettura di ciò che accade nelle nostre periferie.
L'altra cosa che mi ha colpito è la superficialità che ha nel trattare un altro aspetto della questione, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari.
Partiamo da questa frase:
"Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6)"
Diciamo subito che quel 3/4 volte (farà differenza o no 3 o 4 volte?) non è vero. Basta leggere le conclusioni dell'ultimo rapporto del Ministero degli interni disponibile (2007) e commentate dall'allora ministro Amato.
Andiamo però a quel 28 (moltiplicatore tasso di criminalità irregolari).
Se spacchiamo la popolazione italiana per fasce di reddito, condizioni di vita, quartieri etc. e proviamo a dare una lettura al fenomeno criminale che ci riguarda, a quale conclusione possiamo arrivare?
Ad esempio nel quartiere Zen di Palermo quale è il tasso di criminalità rispetto al dato medio della popolazione?
Ed alle vallette di Torino?
In famiglie monoredditto in fascia di povertà in alcune zone d'Italia rispetto ad altre tipologie di famiglie ?
Ci sarà qualche relazione con aspetti quali reddito, condizioni di vita, opportunità,cultura, mobilità sociale della classe di appartenenza, precarietà etc.
Ci sarà qualche relazione con aspetti quali reddito, condizioni di vita, opportunità,cultura, mobilità sociale della classe di appartenenza, precarietà etc.
Costa troppo a Ricolfi misurarsi con un minimo di onestà intellettuale ed andare alla radice delle questioni e dei problemi?
Vuol dire questo non rendersi conto? Io dico semplicemente che alimentare questo tipo di logica non aiuta a capire e risolvere i problemi. Le cose certe sono le galere, chi le frequenta e chi no. Chi ha più possibilità di delinquere date certe condizioni e chi no. Vogliamo rispondere a fenomeni complessi solo parlando alla pancia delle persone? Qui qualche questione e critica sulle metodologie di campionamento
Oltre che proporre soluzioni che ingabbiano le persone cosa può fare la società prima e durante la vita di un individuo?
Che tipo di opportunità, quali condizioni e strumenti gli sono accessibili?
Oltre che proporre soluzioni che ingabbiano le persone cosa può fare la società prima e durante la vita di un individuo?
Che tipo di opportunità, quali condizioni e strumenti gli sono accessibili?
Forse può aiutare, in questo, una delle poche analisi fatte sulla relazione tra criminalità ed immigrazione, questa una sintesi delle conclusioni che potete trovare qui (in inglese),qui come sintesi (in Italiano) con alcune critiche, appunti e consensi sulla metodologia statistica utilizzata
"È il risultato di uno studio su 'Immigrazione e crimine' pubblicato dalla Banca d'Italia e realizzato da tre ricercatori (Milo Bianchi, Paolo Buonanno e Paolo Pinotti) per analizzare l'eventuale "relazione tra immigrazione e criminalità", un tema "al centro di un intenso dibattito in tutti i paesi interessati da rilevanti flussi migratori".
Nell'indagine, affermano quindi i tre studiosi, "impiegando appropriate tecniche econometriche, si mostra come i dati consentano di escludere nettamente l'ipotesi che l'immigrazione contribuisca direttamente all'aumento della criminalità".
Il 'working paper' diffuso da Palazzo Koch, spiegano i ricercatori, punta dritto alla questione tanto discussa, ovvero se la presenza degli immigrati "abbia effetti diretti" sull'incidenza di diversi tipi di reato (crimini contro il patrimonio, contro la persona e violazioni della legge sulle droghe). Per questo, l'indagine si basa sui dati del ministero dell'Interno sui permessi di soggiorno, incrociati con quelli del ministero della Giustizia sui crimini denunciati tra il 1990 e il 2003. In questo periodo, "a fronte di una rapida crescita della presenza straniera, non si è registrato nell'intero Paese un aumento sistematico del tasso di criminalità, che invece mostrerebbe una lieve flessione".
A livello provinciale, tuttavia, "i territori che hanno attratto un maggior numero di immigrati hanno anche registrato tassi di criminalità più elevati, dovuti in particolare a una maggiore incidenza dei crimini contro il patrimonio (80% dei crimini totali)". Esclusa quindi "nettamente", sulla base di analisi econometriche, l'ipotesi di un collegamento diretto tra immigrati e crescita della criminalità, "l'associazione statistica tra presenza straniera e tasso di criminalità - secondo lo studio - è dovuta a fattori che muovono entrambe le variabili nella stessa direzione".
"Un più alto tasso di criminalità e una maggiore presenza di stranieri - concludono i ricercatori - potrebbero entrambi riflettere il più elevato grado di sviluppo di quelle province. Da un lato, gli immigrati vi sarebbero attratti dalle maggiori opportunità d'impiego offerte; dall'altro, costituirebbero un obiettivo preferenziale per compiere crimini contro la proprietà a causa della maggiore ricchezza media, del più elevato grado di urbanizzazione e della maggiore densità di popolazione".
Per concludere chiudiamo con le ultime dichiarazioni di Penati, presidente della provincia di Milano e Piddino, che ha espresso il suo illuminato parere sulle ronde:" la sinistra dica si ai presidi, non possiamo abbandonare i cittadini".
Stessa razza di Ricolfi.
domenica 22 febbraio 2009
Definire un genocidio, terza parte
Il caso Darfur e la definizione di genocidio secondo la commissione Cassese
Recentemente Aegis Trust [in] ha diffuso un video dove vengono raccolte le testimonianze di quattro uomini che dichiarano di aver preso parte alle violenze e ai massacri in Darfur, che non esitano a definire genocidio. Il video è disponibile su The Hub [in] e ci auguriamo che la gente lo faccia girare per diffonderne le notizie:
Gli uomini – il cui viso è oscurato per preservarne l’anonimato - sono ex soldati dell'esercito sudanese e della milizia Janjaweed [it]: uno era un ufficiale superiore del dipartimento finanziario dell’esercito sudanese, l’altro un alto comandante Janjaweed, un terzo era un soldato della fanteria Janjaweed e infine un soldato sudanese.
Nel video spiegano il modo in cui il governo reclutava la milizia Janjaweedd, dava loro armi e rifornimenti e come ne copriva gli attacchi ai villaggi dichiarando che si trattava di scontri fra militari e ribelli, e non era l’esercito che attaccava i civili.
Il video è disponibile con sottotitoli in tedesco, in arabo, e in francese.
Secondo il comunicato stampa di Aegis Trust per la ONG Human Right First [in], il video potrebbe rivelarsi estremamente utile al Tribunale Penale Internazionale per spiccare un mandato d’arresto nei confronti del presidente del Sudan, il generale Omar al-Bashir [it]:
Dal 2003 almeno 300.000 civili sono morti in Darfur e milioni sono stati costretti a spostarsi dopo gli attacchi della milizia nota come “Janjaweed” (i diavoli a cavallo). Le dichiarazioni degli autori – confermate da osservatori internazionali – rivelano che durante le uccisioni, gli stupri, i saccheggi e gli incendi i Janjaweed erano sostenuti dall’esercito e dalle forze aree sudanesi. Ma il governo sudanese ha sempre negato ogni responsabilità sulle atrocità commesse in Darfur e anche oggi sostiene di non aver nulla a che fare con i Janjaweed.
Però gli autori di questo filmato – alcuni dei quali ne parlano pubblicamente per la prima volta – raccontano una storia ben diversa.
Sapete quanti sono i morti fino ad ora? Cliccate qui.
Perché secondo la commissione Cassese non è un genocidio
a Commissione da lei presieduta ha escluso che in Darfur sia in atto un genocidio. Ci può spiegare perché? E ci può dire se è stata una decisione frutto di pressioni politiche?
La Commissione ha operato in piena indipendenza. Non abbiamo subito alcuna pressione politica, se non dagli Stati Uniti perché affermassimo che si trattava di genocidio. Ma abbiamo constatato e continuo a credere che in Darfur non sia in atto un genocidio. Ogni volta che si verifica l’uccisione di migliaia di persone, si ritiene che occorra necessariamente parlare di genocidio. Ma dal punto di vista del diritto internazionale c’è una Convenzione del 1948 e ci sono delle norme consuetudinarie che richiedono, perché si possa parlare di genocidio, non solo che vengano compiuti degli atti, dall’omicidio fino all’impedimento delle nascite di un determinato gruppo di persone, ma anche che questi atti siano compiuti nei confronti di quattro tipi di gruppi: razziale, religioso, etnico o nazionale. Se si tratta di un gruppo politico, non è genocidio. La terza cosa da dimostrare, la più difficile e la più importante, è il dolo specifico: non solo il dolo tipico dell’omicidio volontario, ma anche specifico, nel senso che sia chiara l’intenzione di distruggere un gruppo etnico, razziale, religioso o nazionale, in tutto o in parte. Noi abbiamo dimostrato che le autorità sudanesi e le milizie arabe praticano dei crimini contro l’umanità, ossia lo sterminio e il trasferimento della popolazione, ma senza l’intenzione di distruggere il gruppo in quanto tale. Se avessero voluto distruggere tutte le tribù cosiddette africane, che sono dello stesso colore, della stessa religione e della stessa lingua di quelle arabe, ma si percepiscono come diverse, le avrebbero fatte andare nei campi sfollati e avrebbero cercato di farle morire. Il solo fatto che le autorità consentano alle organizzazioni internazionali di operare nei campi significa che non le vogliono annientare. Auschwitz significa annientare.
Allora perché si continua a parlare di genocidio? Perché una grande potenza come gli Stati Uniti non ha smesso di gridare al genocidio?
Gli stessi studiosi americani considerano genocidio “a magic word”, una parola magica a livello psicologico e mediatico. Soprattutto mediatico. Perché quando si dice genocidio la gente si sente rimescolare il sangue. Perché lo sterminio è meno grave? Gli americani parlano tanto di genocidio perché nel 1994 non hanno voluto dire che era in atto un genocidio in Ruanda. Erano in pieno periodo elettorale ed erano appena rimasti scottati dalla Somalia. Quindi ora si dice che è genocidio in Darfur per evitare la “sindrome di Clinton”, cioè per dire il presidente deve fare qualcosa. E infatti Bush ha ripetuto più volte che è genocidio, ma che ha fatto? Un bel nulla. Una grande potenza come gli Stati Uniti avrebbero varie modalità di intervenire, ma non fanno nulla. La sola cosa meritoria fatta dagli Usa, da Condoleeza Rice in persona, è stata quella di astenersi al momento del voto per il deferimento della questione del Darfur alla Corte penale internazionale.
Ma in caso di genocidio scattano meccanismi di intervento più rapidi ed efficaci da parte della comunità internazionale?
No, non scatta nulla. Se si riconosce il genocidio, non scatta alcun obbligo internazionale. Scatta solo qualcosa nella testa, viene collegato subito all’Olocausto. L’unica cosa prevista dalla Convenzione sul genocidio è che uno stato membro dell’Onu può andare davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu o all’Assemblea generale. Non ci sono strumenti politici né economici per intervenire in caso di genocidio. Quando viene riconosciuto un caso di genocidio, la comunità internazionale non appresta alcuna protezione o meccanismo di garanzia diverso da qualunque altro intervento previsto per gravi massacri, crimini contro l’umanità o crimini di guerra.
Quali sono allora i motivi dello sterminio in atto in Darfur?
Comprendere le cause del conflitto non rientrava nei nostri compiti, ma l’idea che mi sono fatto è che c’è stata una grave ribellione da parte di tre grandissime tribù del Darfur, cosiddette africane, per chiedere più equità nella distribuzione della ricchezza nazionale che oggi si concentra a Khartoum. In Darfur si gira solo in aereo o in elicottero. Non ci sono strade, ferrovie, ospedali o scuole. Le risorse nazionali non vengono utilizzate per lo sviluppo della regione, che è molto povera. Le tribù africane si sono ribellate al potere centrale e Khartoum non ha saputo fronteggiare questa ribellione, anche perché era ancora impegnata nella guerra ventennale contro i ribelli del sud. Il governo di Khartoum non ha un grande esercito, ha poche armi, pochi aerei, tutti Antonov che venivano usati per bombardare. Quindi, non potendo trasferire le truppe dal sud al Darfur, ha sobillato e armato le milizie arabe che da tempo odiano le tribù africane solo per ragioni economiche. Perché gli arabi sono nomadi, pascolano cammelli, mucche e capre, mentre gli africani sono sedentari, coltivano la terra. Da secoli c’è animosità tra queste tribù, che si è inasprita negli ultimi anni perché c’è stata una vasta desertificazione, per ovvi motivi climatici. Le terre fertili sono andate scomparendo e c’è stato uno scontro per il loro controllo. Bisogna sapere che il pascolo vale 60 milioni di dollari l’anno in Darfur. I nomadi vendono i cammelli in Libia e in Egitto. Quando Khartoum gli ha garantito protezione aerea e li ha armati, i janjaweed hanno cominciato a distruggere i villaggi africani da cui provengono i ribelli. Il governo ha quindi optato per una forma errata e disumana di lotta contro una ribellione, provocando stermini, stupri di massa, trasferimenti illeciti di civili da una parte all’altra, creazione di condizioni di vita disumane, ma non quelle indicate dalla Convenzione sul genocidio. Da parte di Khartoum c’è stata quindi incapacità politica nel gestire la crisi e l’idea di liberarsi di una ribellione in fretta, avendo a disposizione poche armi e pochi mezzi. Il Darfur è grande come la Francia, enorme e desertico. Ma non c’è un odio contro le tribù africane, mai e poi mai.
In base al rapporto della sua Commissione, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato nel marzo 2005 la risoluzione 1593 che rinvia alla Corte penale internazionale dell’Aja il giudizio sui crimini commessi in Darfur. Ma non ha accolto la vostra seconda raccomandazione di creare una commissione per il risarcimento delle vittime delle violenze, a prescindere dall’identificazione dei responsabili. Non le pare che l’Onu abbia perso un’occasione per riaffermare la propria ragion d’essere come organizzazione a tutela dei diritti umani?
Sì, è stata un’occasione sprecata, ma non è escluso che le vittime vengano risarcite in futuro. Lo statuto della Corte penale internazionale prevede che chiunque abbia commesso un crimine, uccidendo delle persone, può essere condannato non solo al carcere, ma anche a risarcire il danno. Io ci tenevo molto alla Commissione, ma è già stata una vittoria enorme il deferimento all’Aja.
La risoluzione dell’Onu ha affidato nel marzo 2005 al procuratore Ocampo il compito di indagare sui crimini commessi in Darfur. È indubbio che la corte debba esercitare il proprio compito nel tempo che ritiene necessario, ma mi sa dire perché ha impiegato così tanto per concludere le indagini, anche alla luce del lavoro svolto voi in precedenza?
Mi farebbe piacere saperlo. So che ha aperto gli scatoloni sigillati con tutti i nostri documenti e li ha poi rimessi in cassaforte.
Nella relazione presentata all’Onu, il procuratore Ocampo afferma di aver condotto le sue indagini fuori dal Darfur, per non mettere a rischio vittime e testimoni e gli stessi investigatori. Questo non può aver pregiudicato le indagini?
Il procuratore non ha mai chiesto alle autorità di Khartoum di consentirgli di andare in Darfur. Gli avevo suggerito di chiedere subito l’autorizzazione e, in caso di rifiuto, di ammonire il governo sudanese che avrebbe informato il Consiglio di sicurezza. Lui non l’ha mai fatto e ha sempre addotto motivi di sicurezza. Noi abbiamo visitato le carceri, i luoghi dove l’intelligence militare teneva nascoste le persone. Noi siano andati nei villaggi che bruciavano ancora, a parlare con la gente, nei campi per gli sfollati. Lui non lo ha mai fatto. Detto questo, la raccolta di prove fuori dal Darfur non pregiudica comunque l’indagine, perché le prove sono le testimonianze di rifugiati. Il problema è che rischiano di essere poco attendibili, perché sono persone “inquinate”, in quanto sono da tanto tempo nei campi, all’oscuro dei fatti più recenti, e hanno ripetuto più volte la loro versione, arricchita poi da racconti di altri.
Ocampo ha segnalato tra le righe del suo rapporto scarsa collaborazione da parte del governo di Khartoum. Mi può dire come sono stati i suoi rapporti con il governo sudanese?
Il governo di Khartoum ci ha fatto fare quello che volevamo. Quando volevamo visitare dei posti e si opponevano, alzavo la voce e dicevo che se entro due, tre ore non fossi andato in un determinato posto, me ne sarei andato facendo una dichiarazione alla stampa, quindi un rapporto alle Nazioni Unite. Mi hanno fatto visitare tutti i posti che volevo vedere. Occorre avere grinta.
A suo giudizio, l’opposizione di Khartoum al dispiegamento dei caschi blu nella regione nasce dal timore che i peacekeepers possano ricevere il mandato di arrestare gli inquisiti dalla Corte?
Khartoum si oppone innanzitutto perché i caschi blu sarebbero più efficaci delle truppe africane, che fanno quello che possono, ma non hanno mezzi e si rivelano quindi impotenti. A volte sono state anche prese di mira dai sudanesi. Invece le truppe dell’Onu possono riferire alle Nazioni Unite e avere a disposizione mezzi più efficaci. In secondo luogo teme che possano eseguire mandati di cattura, come fece la Nato in Bosnia-Erzegovina. Perché se viene arrestato un capo dei janjaweed, è chiaro che racconta di aver ricevuto armi e uniformi dal governo.
Infine, avendo visitato la regione, quali solo gli aspetti che l’hanno più colpita?
Innanzitutto il fatto che la maggioranza della popolazione è analfabeta, e poi che è molto legata alla cultura tribale. Mi ricordo che un generale sudanese, vicecomandante dell’intelligence militare, mi diceva che non vedeva l’ora di togliersi l’uniforme e di tornare nella sua tribù, perché diceva che è lì che si trovava più a suo agio. Sono molto legati alle usanze, ai riti, al modo tribale di risolvere le controversie. Senza differenze tra arabi e africani. Il paese è arabizzato da secoli. I contatti continui tra arabi e africani hanno prima di tutto indotto i cosiddetti neri ad abbracciare la religione musulmana, poi ci sono stati molti matrimoni misti. Mi ricordo che spesso incontravamo persone tutte vestite con le tuniche bianche e quando chiedevamo se erano arabi o africani, loro ci dicevano: “Indovinate. Guardateci e indovinate”. Così ho imparato che spesso quelli più scuri sono i cosiddetti arabi. Non c’è più differenza, perché ci sono stati tanti matrimoni misti. Nel corso dei secoli. La differenza non è tra arabi e africani, ma nel tipo di attività che conducono, tra sedentari e nomadi. E c’è soltanto un’altra piccola differenza data dal fatto che le cosiddette tribù africane, oltre a parlare arabo, spesso parlano anche un dialetto locale, tribale. Ma è una differenza da nulla.
Fonte qui
Il prossimo capitolo lo dedicheremo a ciò che intendiamo con genocidio ed a quello che accade in Palestina.
Marx
Materialimo storico e dialettico e critica all'empiriocriticismo
MATERIALISMO STORICO E DIALETTICO
Sebbene sia stato esplicitato maggiormente nei testi di Engels, e sebbene alcuni ritengano che Marx non fosse molto interessato all'opera di sistematizzazione della sua dottrina filosofica realizzata dall'amico, in genere si ritiene che il materialismo dialettico fece la sua comparsa con la rivalutazione critica da parte di Karl Marx del metodo dialettico o evolutivo di Hegel che questi applicava all'analisi dell’Uomo, della sua storia e delle sue opere. Marx capovolse il metodo di Hegel che a suo giudizio "poggiava sulla testa" (cioè sullo Spirito, visto come entità fondante la dialettica storica) "riportandolo sui piedi" (cioè basando la sua filosofia sulla supremazia della materia, di cui i fenomeni spirituali o mentali nel cervello umano sono un prodotto).
Fondamentalmente, ciò che Marx trattenne dell'idealismo hegeliano applicandolo tuttavia al mondo reale (in opposizione al mondo delle idee) fu:
Il rifiuto sia della metafisica idealista (in particolare di tipo religioso) sia dell'empirismo, a favore di un metodo rivolto alla generalizzazione teorica basata sul metodo scientifico: scopo della scienza è scoprire quelle che nel gergo hegeliano sono le "leggi di movimento" dei sistemi che studia, basate sulle forze fondamentali che ne determinano l'evoluzione, rifiutando idee preconcette imposte sui fenomeni ma senza fermarsi neppure ad una mera descrizione statica della loro apparenza superficiale.
Una visione olistica per cui ogni cosa è una parte connessa del complesso che è l’Universo ed è sottoposta, in quanto comunque materia organizzata in forme storicamente determinate, alle medesime leggi fondamentali. Marx rifiuta dunque ogni forma di dualismo.
Il riconoscimento del mutare incessante della realtà, per Hegel frutto del dipanarsi teleologico della dialettica dello Spirito, per Marx al contrario frutto del risolversi e del continuo ricrearsi della contraddizione all'interno degli oggetti materiali, in un'evoluzione che non ha una direzione data dall'esterno ed è intervallata da balzi qualitativi (che nella storia umana sono le rivoluzioni).
Dalla visione materialista tradizionale, ormai già suffragata dalle scoperte dei naturalisti (specialmente Charles Darwin) Marx assume l'idea che la natura non-vivente precedette le forme viventi della natura, che come animali capaci di pensiero astratto e coscienti di sé gli esseri umani si sono evoluti da animali senza questa capacità, e che la mente e la coscienza non possono esistere separatamente da un corpo vivente.
Ludwig Feuerbach
Conseguenza fondamentale della filosofia marxiana è il nuovo ruolo del filosofo materialista-dialettico. Come il mondo secondo Marx non è basato sull'Idea ma sulla materia, così scopo del filosofo non è più solo "interpretare il mondo", ma "mutarlo"
A Lenin si deve l'introduzione dell'espressione "materialismo dialettico", che mette l'accento non più sul rovesciamento materialista della dialettica hegeliana ma soprattutto sul fatto che il marxismo rappresenta una forma nuova di materialismo, distinto dal "materialismo volgare" o "materialismo metafisico" o anche "meccanicismo" tipico di una branca del pensiero filosofico, specie illuminista, che riconduceva tutti i processi naturali al paradigma della meccanica (perfino il pensiero, come esemplifica l'aforisma "Il cervello secerne pensiero come il fegato secerne la bile" attribuito al fisiologo illumista Cabanis).
Nel 1909 Lenin pubblica Materialismo ed empiriocriticismo, in polemica con il compagno di partito Aleksandr Bogdanov il quale sostiene che l'unica realtà (o perlomeno l'unica effettivamente conoscibile) è l'esperienza, contenuta nel lavoro collettivo; in questo Bogdanov riprende e modifica le tesi filosofiche di Richard Avenarius e di Ernst Mach e propone di conciliare con esse il marxismo, giustificando questa operazione sulla base di alcuni nuovi risultati delle scienze naturali. Lenin contesta la filosofia empiriocritica di Mach, a suo parere analoga all'empirismo e al kantismo (che si autodefiniva "filosofia critica"), e tenta di dimostrare la sostanziale somiglianza tra il machismo e il bogdanovismo. Questo libro vuole essere una difesa appassionata e molto dettagliata del materialismo in particolare rispetto ai problemi gnoseologici, partendo dalle posizioni espresse dal "maestro" di Lenin, Georgij Plechanov (autore di testi come Lo sviluppo della visione monista della storia e La concezione materialista della storia)
SOSTANZA DELL'EMPIRIOCRITICISMO
L'empiriocriticismo è un termine usato nel 1894 da Richard Avenarius (1843–1896), professore di filosofia induttiva dell'Università di Zurigo, con il quale voleva definire, attraverso una «critica dell'esperienza pura», una filosofia come scienza che elimini ogni metafisica, mettendo in primo piano «l’esperienza pura», quella che precede la distinzione tra fenomeno fisico e fenomeno psichico. Per lui,l' individuo e l'ambiente in cui è inserito non sono due realtà separate e opposte: l'esperienza che l’uomo ha dell’ambiente esterno è simile a quella di se stesso. Distinguere l'elemento fisico da quello psichico è il risultato di una falsificazione dell’esperienza, causata dall'introiezione, dal riportare all'interno ciò che è esterno, un processo mistificante , che genera le sensazioni personali e dissolve la naturale unità dell'esperienza.
Nelle opere Contributi all'analisi delle sensazioni (1866) e Conoscenza ed errore (1905), Ernst Mach (1838–1916), professore di fisica e poi di filosofia all’Università di Vienna, convergeva con il pensiero di Avenarius, considerando la distinzione tra fenomeno fisico e fenomeno psichico come puramente convenzionale e di carattere pratico.
Quella falsa differenza dipende dall'approccio che si ha nei confronti delle sensazioni, che sono gli elementi costitutivi e primitivi dell'esperienza: per questo, ad esempio, un colore, che è un puro e semplice fatto fisico se lo si mette in relazione ad una fonte luminosa, diventa una realtà psichica se correlato alla retina dell’occhio.
La scienza è dunque una economica elaborazione di leggi naturali con le quali attraverso le sensazioni si mettono in relazione tra di loro i caratteri distintivi dei fenomeni.
Ambedue gli autori prendono spunto dal fenomenismo, ma mentre Mach mette in discussione, con argomenti di tipo epistemologico, il meccanicismo deterministico della fisica e la pretesa della sua metodologia di esercitare un primato su tutto il sapere, Avenarius, che non a caso si riferisce al criticismo kantiano, ha l'obiettivo di liberare la filosofia da ogni impedimento metafisico, sul quale si sono fondate sia le dottrine idealistiche sia quelle positivistiche che esaltavano il metodo scientifico come l'unico valido per un vero sapere.
Sia Avenarius che Mach sono però convinti della validità della conoscenza scientifica per cui si trattava con l'empiriocriticismo di limitare le ingenue pretese del positivismo materialistico e naturalistico e assumere il metodo scientifico come base della conoscenza.
L'obiettivo era quello di trasformare il positivismo in qualcosa di più raffinato eliminando le pretese di dare spiegazioni ultime e definitive della realtà, tipica esigenza della metafisica che genera a sua volta dualismi contrapposti di materialismo e spiritualismo o tentativi di riportare una interpretazione all'altra.
L'errore del positivismo è stato quello di credere al valore assoluto delle leggi scientifiche mentre queste si basano su una necessità economica descrittiva consistenze nell'assumere la molteplice varietà dei fatti particolari empirici con un ristretto numero di segni convenzionali sui quali condurre verifiche sperimentali e le possibili inferenze.
Base della conoscenza scientifica deve essere dunque considerata la pura e semplice esperienza indifferenziata di fisico e psichico che si origina dal rapporto dell'organismo con l'ambiente e delle connessioni di adattamento ed evoluzione secondo le teorie darwiniane. Tutto deve procedere quindi dalle sensazioni, elementi primi della conoscenza, dati definitivi, nè interni ne esterni, nè soggettivi nè oggettivi.
(fonte Wikipedia)
CRITICA ALL'EMPIRIOCRITICISMO
Empiriocriticismo
Concezione filosofica sviluppata da E. Mach e R. Avenarius e affrontata criticamente da Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo. Il punto di partenza della riflessione, in particolar modo di Mach, è il tentativo di liberare il positivismo dal dogmatismo e dalla metafisica di cui era intriso verso la fine del sec. XIX, attraverso la critica dei concetti e dei metodi delle scienze e la definizione di una filosofia il più possibile rigorosa e adeguata allo sviluppo scientifico.
Mach parte nella sua analisi dall'«esperienza pura», cioè dalla sensazione come sola realtà certa e fonte prima di ogni vera conoscenza. La tesi fondamentale è che l'esperienza pura precede la distinzione tra l'aspetto fisico e quello psichico della realtà, che perciò non può e non deve essere interpretata né in senso materialistico né in senso idealistico. Non vi è quindi alcuna distinzione tra soggetto e oggetto: ambedue si identificano in un'unica realtà psicofisica. Gli elementi di questa realtà sono le sensazioni, che, in sé neutre, si qualificano conformemente ai rapporti che di volta in volta vengono a stabilirsi tra di esse.
Così ciò che noi chiamiamo «cose» e «pensiero» sono soltanto forme diverse di rapporto degli stessi complessi elementi, nel senso che la loro diversità dipende solo da una diversità di caratteri e di rapporti. Per Mach le cose al di là di questi elementi sono un'illusione metafisica. In questa concezione anche le teorie scientifiche e le leggi di natura non corrispondono a entità oggettive, ma hanno un carattere convenzionale e di economicità, dipendendo da criteri di utilità, comodità e abitudine.
Lenin combatté aspramente la posizione filosofica di Mach e dei suoi seguaci in Russia mettendone in luce, dietro la facciata critica e aperta, la realtà idealistica e reazionaria. Il significato dell'intervento leniniano può essere compreso solo all'interno della situazione politica e culturale creatasi nella socialdemocrazia russa dopo il fallimento della rivoluzione del 1905. Gli interlocutori di Lenin erano quei pensatori che, pur richiamandosi al marxismo, ne abbandonavano la concezione materialistico-dialettica per farsi portatori della sintesi tra marxismo ed empiriocriticismo, ritenuto idoneo a modernizzare il marxismo, alla luce dei più moderni sviluppi delle scienze e della più avanzata cultura europea. Per Lenin, in una situazione di ripensamento della propria strategia da parte del partito, tale operazione, sotto l'apparenza di un raffinato spirito critico, non solo portava a posizioni idealistiche in filosofia, ma, trattando problemi solo apparentemente slegati dall'azione politica e dalla battaglia teorica, giungeva all'agnosticismo anche nel campo delle scienze sociali e alla negazione della lotta rivoluzionaria.
La critica di Lenin non si rivolse solo ai machisti russi, ma anche e soprattutto a quel movimento più vasto che dominava gli ambienti filosofici e scientifici d'Europa e che ambiva a presentarsi come la più valida scuola di interpretazione dei nuovi risultati scientifici. In questo senso il testo leniniano assume il valore di opera teorica di difesa del marxismo e di suo sviluppo in relazione alle nuove condizioni delle scienze all'inizio del sec. XX. All'empiriocriticismo che riteneva il materialismo superato, Lenin oppose la validità delle tesi del materialismo dialettico, come le uniche capaci di sciogliere il nodo della crisi delle scienze dell'Ottocento, la considerazione della quale portava i filosofi a conclusioni di tipo convenzionalistico e idealistico.
La realtà esiste oggettivamente, dice Lenin, e l'uomo la conosce attraverso un attivo processo di rispecchiamento teorico e di trasformazione pratica. Mach, nel suo tentativo di superare sia il materialismo che l'idealismo, non si rende conto dell'assoluta opposizione delle due tendenze. Il partire dalle sensazioni di Mach quindi è equivoco finché non si precisa la natura delle sensazioni. Per Lenin «la sensazione è realmente il legame diretto della coscienza col mondo esterno». E' proprio questo legame che nega Mach, vedendo anzi la sensazione come un muro invalicabile tra la coscienza e il mondo esterno, in definitiva pertanto come l'unica realtà conoscibile. Così o gli elementi sono sensazioni e allora non esistono fuori della coscienza, o non lo sono e allora si dovrebbe in un modo o nell'altro accedere a posizioni materialistiche, in quanto si dovrebbe ammettere l'esistenza di oggetti indipendentemente dalla coscienza. Per Lenin sono le stesse scienze e il loro sviluppo che confermano la validità delle posizioni materialistiche.
fonte: resistenze.org
Per maggiori dettagli sulle motivazioni e contenuti qui
sabato 21 febbraio 2009
Canzoni
Lucio Dalla e Torino
Molti anni fa Lucio Dalla cantava canzoni che gli scriveva Roversi. Un poeta. Questa è una di quelle, si intitola "un auto targata Torino" .
La prima volta che l'ho ascoltata ero a casa di Giancarlo. Sdraiati per terra, ci si passava una canna e si fissava il soffitto. Torino era come nella canzone. Le montagne ed i viali ampi, i suoi portici e la mole. La piola "dai morti" di fronte al Po. Palazzo Nuovo, i tram, le giornate fredde, la nebbia, gli operai che uscivano a frotte dalle fabbriche.
Eravamo giovani e verdi di speranze, sogni.
Era una città in cui si produceva metallo e plastica. I tempi scanditi dalla fabbrica.
Ed oggi?
Oggi i terroni hanno provato a comperare le case che costruivano, hanno mutui da pagare, figli senza identità che guardano le luci del centro e provano ad afferrarle.
E' una città che ha provato a darsi una identità diversa senza riuscirci. deve fare i conti con una popolazione che è mutata profondamente.
Le case le costruiscono romeni e marocchini, egiziani e sud americani.
Altri uomini si sommano ad altri uomini nella produzione di ricchezza che a loro non lascerà nulla. Lo fanno, consapevoli, sperando che tocchi ai loro figli. Sogneranno come i terroni ed anche a loro toccherà guardare il cielo. Senza riuscire a toccarlo.
Un' auto vecchia torna
da Scilla a Torino,
dentro ci sono dieci occhi
ed uno stesso destino
Il bambino ha una palla
ed aspetta in cortile
con in mezzo poco sole,
poco solo di aprile
Il ragazzo,
inferriate e catene,
ha vent' anni:
son vent' anni di pene!
La ragazza,
venduta per ore,
nella campagna
butta sangue e sudore
La madre è una forma disfatta,
sopra gli occhi ha i capelli di latta.
Il padre è uno schedato, spiato,
se si avventa sull' asfalto è inchiodato.
Il paesaggio è un' Italia sventrata
dalle ruspe che l' hanno divorata.
Arrivano nel ghetto,
ammuffito, spaccato,
contano i sassi
dentro il filo spinato.
Questo luogo del cielo è chiamato Torino,
lunghi e grandi viali, splendidi monti di neve
sul cristallo verde del Valentino,
illuminate tutte le sponde del Po.
Mattoni su mattoni,
sono condannati i terroni
a costruire per gli altri
appartamenti da cinquanta milioni
----------------
Now playing: Lucio Dalla - Un auto targata Torino
via FoxyTunes
da Scilla a Torino,
dentro ci sono dieci occhi
ed uno stesso destino
Il bambino ha una palla
ed aspetta in cortile
con in mezzo poco sole,
poco solo di aprile
Il ragazzo,
inferriate e catene,
ha vent' anni:
son vent' anni di pene!
La ragazza,
venduta per ore,
nella campagna
butta sangue e sudore
La madre è una forma disfatta,
sopra gli occhi ha i capelli di latta.
Il padre è uno schedato, spiato,
se si avventa sull' asfalto è inchiodato.
Il paesaggio è un' Italia sventrata
dalle ruspe che l' hanno divorata.
Arrivano nel ghetto,
ammuffito, spaccato,
contano i sassi
dentro il filo spinato.
Questo luogo del cielo è chiamato Torino,
lunghi e grandi viali, splendidi monti di neve
sul cristallo verde del Valentino,
illuminate tutte le sponde del Po.
Mattoni su mattoni,
sono condannati i terroni
a costruire per gli altri
appartamenti da cinquanta milioni
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Now playing: Lucio Dalla - Un auto targata Torino
via FoxyTunes
giovedì 19 febbraio 2009
PD ovvero Partito Dormiente e connivente
Continuiamo con la rubrica: quando lo dicevo io.
PARTITO DORMIENTE e connivente
C'è gente che si ostina a cercare le ragioni per cui quel clone di partito di nome PD non fa opposizione a questo governo di destra.
Fossero un po' svegli le motivazioni le potrebbero trovare nella composizione di "classe" di quelli che hanno mandato in parlamento.
Come può uno come Colanino dire che il piano Alitalia è un furto (ad esempio)? O uno come Calearo che il federalismo a cui pensano lor signori è una balcanizzazione in piccolo di questo nostro beneamato giardino?
Oltre che a questo, basterebbe dare un'occhiata all'intervista di quella specie di zecca parassitaria che è il fallito candidato sindaco di Roma. Per lui la politica del nano è marketing sapiente, come se le azioni che incidono sulla pelle ed il portafoglio della gente non fossero altro che una scatola vuota ed indolore.
Se date un'occhiata ai blog del popolo piddino potrete constatare come l'omologazione culturale ha schiacciato in modo netto e devastante, su posizioni reazionarie, la maggior parte di quelle persone. La differenza con "gli altri" la fanno i toni non la sostanza degli argomenti.
Se i progetti per un futuro diverso hanno le loro radici in quel brodo culturale che è il consociativismo borghese costruito intorno ad interessi forti di classe, e la lettura di quello che si muove nella società non si sforza di evidenziare percorsi alternativi che siano altro rispetto alle ricette che vanno di moda ora, che orizzonte sperate di avere di fronte a voi?
Hanno svenduto tutto, tutto ciò che nella storia di questo paese ha rappresentato un'alternativa ideologica e culturale al ciarpame della destra.
Hanno trasformato le cooperative in holding per affaristi, svenduto pezzi dello Stato agli amici, cooptato i figli di ricchi uomini di affari nella loro classe dirigente, attraversato il deserto per banchettare con loro signori spartendosi tutto ciò che c'è da spartire. Hanno uomini che amministrano da sceriffi senza avere la forza morale di un Tex Willer. Limitano la loro funzione alla pistola. Sono uomini scientemente "razzisti", vogliono mani libere per poter amministrare al meglio separando nelle città i luoghi da difendere e privilegiare da quelli in cui l'ordine passa attraverso i divieti e le pattuglie dell'esercito.Sono, forse, un pò meno rozzi. Ma tanto fascisti nell'animo.
Con molti di loro non ci può essere dialogo, qualcun altro finirà per concentrasi su hobby personali per non ammettere la sconfitta. Credo, però, che qualcuno alla fine si romperà i coglioni di fare il connivente.E' questione di tempo. Come nel ventennio. Speriamo solo di non dover spalare la stessa quantità di macerie e seppellire lo stesso numero di morti.
PARTITO DORMIENTE e connivente
C'è gente che si ostina a cercare le ragioni per cui quel clone di partito di nome PD non fa opposizione a questo governo di destra.
Fossero un po' svegli le motivazioni le potrebbero trovare nella composizione di "classe" di quelli che hanno mandato in parlamento.
Come può uno come Colanino dire che il piano Alitalia è un furto (ad esempio)? O uno come Calearo che il federalismo a cui pensano lor signori è una balcanizzazione in piccolo di questo nostro beneamato giardino?
Oltre che a questo, basterebbe dare un'occhiata all'intervista di quella specie di zecca parassitaria che è il fallito candidato sindaco di Roma. Per lui la politica del nano è marketing sapiente, come se le azioni che incidono sulla pelle ed il portafoglio della gente non fossero altro che una scatola vuota ed indolore.
Se date un'occhiata ai blog del popolo piddino potrete constatare come l'omologazione culturale ha schiacciato in modo netto e devastante, su posizioni reazionarie, la maggior parte di quelle persone. La differenza con "gli altri" la fanno i toni non la sostanza degli argomenti.
Se i progetti per un futuro diverso hanno le loro radici in quel brodo culturale che è il consociativismo borghese costruito intorno ad interessi forti di classe, e la lettura di quello che si muove nella società non si sforza di evidenziare percorsi alternativi che siano altro rispetto alle ricette che vanno di moda ora, che orizzonte sperate di avere di fronte a voi?
Hanno svenduto tutto, tutto ciò che nella storia di questo paese ha rappresentato un'alternativa ideologica e culturale al ciarpame della destra.
Hanno trasformato le cooperative in holding per affaristi, svenduto pezzi dello Stato agli amici, cooptato i figli di ricchi uomini di affari nella loro classe dirigente, attraversato il deserto per banchettare con loro signori spartendosi tutto ciò che c'è da spartire. Hanno uomini che amministrano da sceriffi senza avere la forza morale di un Tex Willer. Limitano la loro funzione alla pistola. Sono uomini scientemente "razzisti", vogliono mani libere per poter amministrare al meglio separando nelle città i luoghi da difendere e privilegiare da quelli in cui l'ordine passa attraverso i divieti e le pattuglie dell'esercito.Sono, forse, un pò meno rozzi. Ma tanto fascisti nell'animo.
Con molti di loro non ci può essere dialogo, qualcun altro finirà per concentrasi su hobby personali per non ammettere la sconfitta. Credo, però, che qualcuno alla fine si romperà i coglioni di fare il connivente.E' questione di tempo. Come nel ventennio. Speriamo solo di non dover spalare la stessa quantità di macerie e seppellire lo stesso numero di morti.
mercoledì 18 febbraio 2009
politica
Dopo Veltroni cosa?
Adesso che il PD è allo sbando inauguriamo una rubrica intitolata: io lo dicevo.
Qui propongo un mio post del Settembre 2008. Ne prenderò altri dalla rete. Magari può servire a loro ed a noi per riflettere. Anche perché, se un simulacro della sinistra in questo paese allo sfacelo è rimasto, forse è necessario che si ricominci a ragionare partendo dai fatti e cercando di scegliere quale pezzo di paese, classe sociale ed interessi/diritti si vuole rappresentare. L'epoca del "ma anche" bisogna cancellarla dalla memoria. Fa danni dal 1922.
Strip-tease delle ex telefoniste dell’ospedale di Legnano, che per sei anni hanno lavorato con un contratto interinale rinnovato di volta in volta e ora sono vittime del decreto Brunetta
Alitalia il personale è esuberante
4 Settembre 2008Fonte delle vignette :http://precariopoli.wordpress.com
Queste due vignette di precariopoli ci danno lo spunto per fare alcune osservazioni sul Partito Democratico (in via di liquidazione) e sulle logiche "politiche" di quegli affaristi.
I nostri sono smarriti e non riescono a trovare un solo filo con il quale tessere un programma e lanciare delle idee che siano in antitesi ed alternative al governo di destra.
Il loro elettorato è smarrito.
Ieri sera mi è capitato di ascoltare (volevo soffrire) la brillante analisi di un fine politico come è l'ex trombato allo scranno di Roma Rutelli.
Per lui bisogna cogliere l'occasione data dalla "incazzatura" dei poliziotti e dei carabinieri per portare avanti istanze alternative che compattino un pezzo di società su cui investire politicamente.
Al posto di fabbriche, uffici, cantieri, campagne del sud e periferie urbane, dove provare a fare politica,poliziotti e carabinieri.
Idea geniale.
Proviamo a stilare l'agenda strategica di questi soloni:
Economia: tutto occupato dalla destra e la lotta di classe fa schifo. Adesso che anche il modello globale è in crisi che cazzo resta?E poi se sei contro lo statalismo,per il liberismo, per l'apertura dei barbieri al lunedì e la svendita di aziende dello stato agli amici imprenditori cosa cazzo gli contesti al Berlusca?
Diritti dei lavoratori: con uno come Treu dentro la banda cosa gli andate a raccontare ai precari dell'Alitalia? E con uno come Colaninno figlio,con il professore Ichino e con Calearo?In compenso è rimasto lo scampato della Thyssen che, anche se in un angolino, serve sempre per le foto di famiglia.
Diritti civili: tutto occupato dalla destra e la Binetti, insieme alla sensibilità del mondo cattolico da salvaguardare, non gradirebbe.
Democrazia: per quella vale il modello americano, due grandi partiti che rappresentino bene le esigenze delle elites e dei "compari" , una classe dirigente ben scelta e selezionata tra amici e "conniventi", giovincelli in giacca e cravatta presi dalla società civile del centro delle città, alfabetizzati quel tanto da imparare a memoria la vision del capo ed un 50% di lobotomizzati che li votino. Se non altro i fascisti hanno sudato un pò di più ed una camminata se la son dovuta fare, all'epoca, per mettere tutti in camicia nera. Loro si limitano a "costruire" insieme per dovere istituzionale la gabbia del domani.In modo soft e partecipato.
I nostri sono smarriti e non riescono a trovare un solo filo con il quale tessere un programma e lanciare delle idee che siano in antitesi ed alternative al governo di destra.
Il loro elettorato è smarrito.
Ieri sera mi è capitato di ascoltare (volevo soffrire) la brillante analisi di un fine politico come è l'ex trombato allo scranno di Roma Rutelli.
Per lui bisogna cogliere l'occasione data dalla "incazzatura" dei poliziotti e dei carabinieri per portare avanti istanze alternative che compattino un pezzo di società su cui investire politicamente.
Al posto di fabbriche, uffici, cantieri, campagne del sud e periferie urbane, dove provare a fare politica,poliziotti e carabinieri.
Idea geniale.
Proviamo a stilare l'agenda strategica di questi soloni:
Economia: tutto occupato dalla destra e la lotta di classe fa schifo. Adesso che anche il modello globale è in crisi che cazzo resta?E poi se sei contro lo statalismo,per il liberismo, per l'apertura dei barbieri al lunedì e la svendita di aziende dello stato agli amici imprenditori cosa cazzo gli contesti al Berlusca?
Diritti dei lavoratori: con uno come Treu dentro la banda cosa gli andate a raccontare ai precari dell'Alitalia? E con uno come Colaninno figlio,con il professore Ichino e con Calearo?In compenso è rimasto lo scampato della Thyssen che, anche se in un angolino, serve sempre per le foto di famiglia.
Diritti civili: tutto occupato dalla destra e la Binetti, insieme alla sensibilità del mondo cattolico da salvaguardare, non gradirebbe.
Democrazia: per quella vale il modello americano, due grandi partiti che rappresentino bene le esigenze delle elites e dei "compari" , una classe dirigente ben scelta e selezionata tra amici e "conniventi", giovincelli in giacca e cravatta presi dalla società civile del centro delle città, alfabetizzati quel tanto da imparare a memoria la vision del capo ed un 50% di lobotomizzati che li votino. Se non altro i fascisti hanno sudato un pò di più ed una camminata se la son dovuta fare, all'epoca, per mettere tutti in camicia nera. Loro si limitano a "costruire" insieme per dovere istituzionale la gabbia del domani.In modo soft e partecipato.
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