Il 14 aprile 1999, mentre infuriava la guerra contro la Jugoslavia, su "la Stampa" appariva una breve lettera firmata da Gianni Vattimo che così suonava o tuonava: "Ma Domenico Losurdo, Luciano Canfora, Costanzo Preve, Livio Sichirollo e gli altri firmatari della lettera di solidarietà al popolo serbo, che invitano Milosevic a "ristabilire la convivenza tra i diversi gruppi etnici" nonostante l'aggressione imperialista (colpevole di averla turbata?), hanno sentito parlare della Bosnia, degli stupri etnici, dei campi di concentramento, della pulizia razziale cominciata da Milosevic dieci anni fa?". Due giorni dopo, sempre "la Stampa" ospitava una replica firmata dal sottoscritto. Dopo una ricostruzione assai diversa della vicenda del Kosovo, la mia lettera così si concludeva: "Vattimo si è meritatamente conquistato una fama internazionale come interprete di Nietzsche e Heidegger. Peccato che ora sembri perdere di vista un aspetto essenziale della loro lezione: il pathos morale può veicolare le peggiori crociate sterminatrici". Prescindiamo qui dagli aspetti più immediatamente politici di questo scambio di lettere (d'altro canto, sulla nuova guerra che si profila all'orizzonte, Vattimo sembra per fortuna voler assumere un atteggiamento del tutto diverso). E' più importante un altro aspetto. Già dalla polemica appena vista emergeva un contrasto filosofico, che verteva e verte non sulla grandezza del filosofo in questione, bensì sugli insegnamenti che da lui si possono e si devono ricavare. Anzi, dal mio punto di vista era ed è chiaro che la lettura innocentista di Nietzsche gli fa un grave torto, rendendo impossibile la comprensione della possente carica demistificatrice che dispiega il suo "radicalismo aristocratico".
Radicalismo aristocratico e rivendicazione della schiavitù
"Radicalismo aristocratico": in questa definizione, che si deve alla penna di un amico e ammiratore (Georg Brandes), Nietzsche si riconosce in pieno. Ed essa sembra ben caratterizzare un atteggiamento politico che non si limita a condannare come espressioni di "decadenza" e "degenerazione" lo Stato sociale, i sindacati, la diffusione dell'istruzione, la democrazia, il regime parlamentare. Andando ancora oltre, il filosofo non esita a rivendicare la permanente validità dell'istituto della schiavitù quale fondamento della civiltà. L'ermeneutica oggi dominante preferisce rimuovere o leggere in chiave allegorica questo motivo che accompagna come un'ombra l'opera di Nietzsche in tutto l'arco della sua evoluzione. Epperò, a rinviarci alla storia e alla politica sono i testi stessi del filosofo, che contengono riferimenti sprezzanti a Beecher-Stowe, l'autrice della Capanna dello zio Tom, il celebre romanzo abolizionista che tanto eco suscita in Europa e nella stessa Germania. Ancora più significativa è l'osservazione contenuta in Umano troppo umano: tutti desiderano l'"abolizione della schiavitù"; eppure bisogna ammettere che "gli schiavi sotto ogni riguardo vivono più sicuri e più felici del moderno operaio (Arbeiter) e il lavoro (Arbeit) degli schiavi è ben poca cosa rispetto a quello dell'operaio", dell'Arbeiter. Di nuovo, siamo rinviati alla guerra di Secessione e all'aspro dibattito che l'ha preceduta e accompagnata: ad insistere sul fatto che la condizione degli operai liberi non è migliore di quella degli schiavi, a contrapporre la schiavitù salariata, descritta con implacabile durezza di toni, alla schiavitù vera e propria, per lo più mistificatoriamente immersa in un'ovattata atmosfera patriarcale, ad agitare tale argomento sono i difensori della schiavitù.
E' bene allora precisare il quadro storico in cui si collocano la vita e la riflessione di Nietzsche. La sua giovinezza cade nel mezzo della guerra di Secessione: in riferimento alla situazione del Sud degli USA, Tocqueville sottolinea come pene severe proibiscano di insegnare agli schiavi a leggere e scrivere. Siamo portati a pensare a Nietzsche: "Se si vogliono degli schiavi - e di essi si ha bisogno - non si devono educare come padroni". E' sempre Tocqueville ad osservare che nel Sud degli USA il valore tenuto in maggior considerazione dai padroni bianchi è l'otium, mentre "il lavoro si confonde con l'idea di schiavitù". E di nuovo il pensiero corre a Nietzsche, al suo sarcasmo sulla "dignità del lavoro" e alla sua denuncia della "famigerata volgarità degli industriali dalle rosse mani grassocce", essi stessi contaminati dalla moderna frenesia del lavoro. Negli anni successivi al 1865, alla cancellazione della schiavitù nella repubblica nord-americana corrisponde la cancellazione della servitù della gleba in Russia; senonché, forme di servaggio o semiservaggio persistono nei due paesi. L'Inghilterra, che nel 1833 ha abolito la schiavitù nelle sue colonie, procede poi, negli anni '70 e '80, al blocco navale delle coste dell'Africa orientale per impedire la persistente tratta dei neri in direzione soprattutto del Brasile che abolisce la schiavitù, e il relativo commercio degli schiavi, solo nel 1888, l'anno in cui ormai volge al termine la vita cosciente del filosofo. Infine, è da tener presente che, mentre giustificano la loro espansione in nome dell'abolizione della schiavitù nelle colonie, le grandi potenze sottopongono gli "indigeni" a rapporti di lavoro servili. E' la conferma, agli occhi di Nietzsche, dell'ineludibilità di un istituto che a torto e invano i filantropi moderni pretendono di abolire.
Il dibattito sulla schiavitù irrompe con forza anche sul terreno dell'antichistica: nel 1848 Henri Wallon pubblica la sua Histoire de l'esclavage dans l'antiquité e, nella lunga prefazione (un libro nel libro), prende netta posizione a favore dell'abolizione della schiavitù nelle colonie francesi, decisa dalla repubblica scaturita dalla rivoluzione del febbraio 1848. Ben si comprende il coinvolgimento dei filologi. Wallon osserva che, nell'opporsi alla soppressione della schiavitù nelle colonie francesi, "i partigiani dello status quo, fanno appello all'antichità". Anche negli USA la polemica anti-abolizionista celebra ripetutamente la splendida fioritura della Grecia antica, impensabile senza la presenza di quel benefico istituto, tanto odioso a sciagurati ideologi privi del senso della realtà. Negli anni che precedono lo scoppio della guerra di Secessione, lo studio dei classici latini e greci è al centro del curriculum delle scuole e delle Università nel Sud. Particolare attenzione viene riservata ad Aristotele, ed è per l'appunto tenendo presente la definizione aristotelica dello schiavo che Nietzsche parla della stragrande maggioranza degli uomini come "macchine intelligenti" ovvero come "strumenti di trasmissione".
Onnipresente in Nietzsche e nel dibattito culturale e politico della seconda metà dell'Ottocento, il tema della schiavitù dilegua o si trasforma in un'innocente metafora nell'ambito dell'odierna ermeneutica dell'innocenza (Bataille, Deleuze, Vattimo, Colli, Montinari ecc.). Il filosofo viene così "salvato" ma a caro prezzo, attribuendogli una limitata capacità di intendere e di volere in campo politico: egli avrebbe fatto costante ricorso alla "metafora" della schiavitù, essendo del tutto all'oscuro dell'aspra polemica e della dura lotta che, su tale tema, divampavano attorno.
Otium et bellum, "guerra e arte"
E, invece, per Nietzsche non ci sono dubbi: sono le fatiche e gli stenti degli schiavi a rendere possibile la civiltà, consentendo ad una ristretta minoranza di uomini la libertà dal lavoro e dalle preoccupazioni materiali e dunque il godimento dell'otium e la promozione della cultura e dell'arte. Tale aristocrazia si impegna a custodire la sua "distinzione" rispetto non solo alle masse lavoratrici ma anche, come sappiamo, ai capitalisti dalle "mani grassocce". Questi ultimi tendono a condividere le idee e i gusti delle prime: gli uni e le altre si riconoscono in una "civilizzazione" all'insegna del comfort materiale e di un ideale filisteo di sicurezza, sono incapaci di comprendere da un lato i valori della cultura, della bellezza, dell'arte, dall'altro i valori del rischio, del coraggio, dell'avventura, della guerra. E' in questo quadro che bisogna collocare l'inno alla guerra in Nietzsche, che non si stanca di celebrare le figure dei grandi condottieri, quali Alessandro, Cesare, Napoleone, e che, in particolare, raccomanda il "militarismo" di Napoleone come "cura" necessaria contro l'odiata "civilizzazione".
Senonché, come per la rivendicazione della schiavitù, anche in questo caso interviene la lettura in chiave metaforica ad immergere il filosofo in un bagno di innocenza. In Vattimo la celebrazione nietzscheana della guerra diviene la "negazione nietzscheana dell'unità dell'essere" ovvero l'"insistenza sul conflitto, il caos, il carattere interpretativo di tutto". Di nuovo dileguano i conflitti politici e sociali del tempo, di nuovo la storia viene messa alla porta come un'intrusa. In realtà, nello sviluppare il suo discorso sulla guerra, Nietzsche si rivolge ad una classe ben determinata. La "nuova nobiltà", di cui il radicalismo aristocratico si augura l'avvento o la riscossa, è chiamata a riaffermare la sua "distinzione", di contro alla dilagante volgarità dell'utilitarismo e del pensiero meramente calcolante, agitando la bandiera dell'otium et bellum. Assai caro al nostro filosofo, tale motto descrive e trasfigura le condizioni di vita e i valori dell'aristocrazia europea della seconda metà dell'Ottocento. Mentre fonda la sua ricchezza e il suo splendore sul possesso della terra, coltivata da una popolazione agricola su cui pesa ancora il retaggio feudale, la nobiltà occupa per tradizione gli alti gradi dell'apparato militare. Il rapporto signore-servo si riproduce nell'esercito come rapporto ufficiale/soldati; il beneficiario dell'otium è al tempo stesso il protagonista del bellum, così come a sopportare e ad aborrire il peso dell'otium e del bellum è la massa dei servi o dei figli di servi.
Naturalmente, proprio perché unifica l'aristocrazia europea nel suo complesso e ha di mira in primo luogo il confitto sociale interno, la parola d'ordine dell'otium et bellum è tutt'altro che sinonimo di agitazione sciovinistica intra-europea. Ciò vale per l'Antico regime che sussiste fino allo scoppio della prima guerra mondiale così come vale per Nietzsche: l'aristocrazia riafferma la sua egemonia e la sua "distinzione" impegnandosi in guerre che hanno come bersaglio la plebaglia socialista nella metropoli capitalistica e la marmaglia dei barbari nelle colonie. Alcuni decenni più tardi, in Germania, Langbehn chiama "guerra e arte" a contrastare la deriva dell'involgarimento plebeo e democratico. Ad esprimersi così è un autore che si considera "discepolo" di Nietzsche. In effetti, la parola d'ordine appena vista riecheggia il motto otium et bellum, dove l'otium è la condizione indispensabile per il prodursi della civiltà e, in primo luogo, dell'arte. Lo dimostra in particolare l'esempio della Grecia. E alla Grecia sulla scia del suo Maestro, fa riferimento anche Langbehn: ""guerra e arte" è una parola d'ordine greca, tedesca, ariana".
"Allevamento", "superuomo" e "sottouomo"
Al fine di tener ferma e invalicabile la barriera che deve separare i signori dagli schiavi, Nietzsche rinvia come ad un modello al codice Manu e al mondo induista delle caste. Qui non c'è ombra di mobilità sociale: il dominio signorile e il lavoro si trasmettono ininterrottamente di generazione in generazione. Siamo come in presenza di "razze" contrapposte, quella degli ariani (il superiore popolo conquistatore) e quella dei nativi sconfitti e soggiogati. Norme rigorose vietano il mescolamento delle classi e delle razze (la miscegenation contro cui, in questo periodo di tempo tuonano nel Sud degli Stati Uniti i teorici della schiavitù e dell'assoggettamento dei neri). L'ultimo Nietzsche sottolinea compiaciuto come il codice Manu colpisca con particolare durezza "l'uomo-non-da-allevamento (Nicht-Zucht-Mensch), l'uomo ibrido, il ciandala".
Nell'esprimersi in tal modo, il filosofo risente chiaramente dell'influenza di una nuova "scienza", l'eugenetica, inventata in Inghilterra da Galton, cugino di Darwin. Ora è possibile perseguire in modo "scientifico" l'"allevamento" (Züchtung) della razza dei signori e della razza dei servi, sbarazzando al tempo stesso la società dei "materiali di rigetto e di scarto". Emergono così motivi più che mai inquietanti, e più sollecitamente che mai l'ermeneutica dell'innocenza interviene a mettere al riparo Nietzsche da ogni contaminazione con la politica e, a maggior ragione, con la politica eugenetica. Non c'è da preoccuparsi - assicura Vattimo - "questo biologismo è allegoria". Di conseguenza, tutte le volte che può egli traduce Züchtung non già con "allevamento" bensì con "educazione". Che importa se Crepuscolo degli idoli dichiara in modo esplicito che "l'allevamento di una determinata specie umana" rientra tra i "termini zoologici"? L'ultimo Nietzsche invoca rigorose misure legislative per bloccare la procreazione dei malriusciti e dei falliti della vita. Se si vuole realmente sventare il pericolo che il delinquente contribuisca a formare una "razza della delinquenza", non si deve esitare a "castrarlo". E' così che bisogna procedere anche "per i malati cronici e nevrastenici di terzo grado", per i "sifilitici": si tratta insomma di impedire la procreazione "in tutti i casi in cui un figlio sarebbe un delitto".
Non si ferma qui la politica eugenetica di Nietzsche, che non solo irride "il divieto biblico "non uccidere"" ma che giunge ad enunciare un programma estremamente radicale: "Annientamento di milioni di malriusciti", "annientamento delle razze decadenti", s'impone "un martello con cui frantumare le razze in via di degenerazione e morenti, con cui toglierle di mezzo per aprire la strada a un nuovo ordine vitale". Più evidente che mai risulta l'inconsistenza della lettura allegorica. Di cosa sarebbe metafora l'appello alla castrazione e persino all'annientamento dei malriusciti oltre che delle "razze decadenti"? E, tuttavia, in Vattimo il processo di volatilizzazione e sublimazione si conclude con la proposta di tradurre Übermensch con "oltreuomo", invece che con "superuomo": a Nietzsche starebbe a cuore solo il "trascendimento" dell'"uomo della tradizione". In realtà, nel condannare "l'egoismo dei malati", che si attaccano ad una vita priva di valore e in tal modo aggravano la "degenerazione" (Entartung), Zarathustra proclama: "In alto va la nostra strada, dalla specie (Art) alla super-specie" (Über-Art). Chiara è la contrapposizione del "super-uomo" e della "super-specie" alla dilagante "degenerazione". E' impresa vana voler separare in Zarathustra il grande e fascinoso moralista (il critico implacabile dell'"uomo della tradizione") dal brutale teorico del radicalismo aristocratico.
Ma la traduzione vattimiana implica un'ulteriore rimozione. C'è un rapporto tra la celebrazione del "superuomo" (Übermensch) e la denuncia del "sottouomo" (Untermensch), che un ruolo così cruciale e così funesto svolge più tardi nell'ambito dell'ideologia e della pratica del Terzo Reich?
Rimozione della storia e ricerca di un capro espiatorio
Ossessionata dalla preoccupazione di evitare ogni possibile elemento di contiguità tra Nietzsche e l'ideologia nazista, l'odierna ermeneutica dell'innocenza per un verso rimuove o trasfigura i motivi più inquietanti e ripugnanti del grande filosofo, per un altro verso s'impegna nella caccia al capro espiatorio: ad aver tentato di distruggere il mondo incantato delle metafore sono la "manipolazione" di Elisabeth o le mistificazioni di Lukács. Senonché, questa caccia è al tempo stesso inconcludente e superflua. Mentre il filosofo è ancora in vita, l'amico o l'ex-amico Rohde condanna la sua "morale cannibalesca". Qualche anno dopo, un discepolo di Feuerbach, Julius Duboc, osserva che dagli scritti di Nietzsche emana un "puzzo di incendio e di bruciato", un'"aria carica di miasmi in cui è immersa l'aristocrazia canagliesca dei suoi superuomini". D'altro canto, agli inizi del Novecento grandi sociologi come Pareto e Weber e, ai giorni nostri, storici eminenti quali Mayer, Nolte, Ritter, Hobsbawm, Elias, tutti concordano, sia pure a partire da orientamenti tra loro assai diversi, nel collocare Nietzsche nell'ambito della reazione antidemocratica di fine Ottocento.
Ma, oltre che inconcludente e ingiusta, la caccia al capro espiatorio è fondamentalmente superflua. E' precipitoso leggere come una diretta anticipazione del nazismo l'"annientamento delle razze decadenti" invocato da Nietzsche: è una pratica in atto nella seconda metà dell'Ottocento (si pensi alla cancellazione dalla faccia della terra dei pellerossa negli Stati Uniti e degli "indigeni" in Australia e nell'Africa del Sud); e questa pratica è così largamente accettata e condivisa che ad essa non hanno nulla da obiettare neppure autori che si dichiarano liberali (Burckhardt, Renan ecc). Certo, è a partire da questo contesto ideologico e politico che bisogna prendere le mosse per comprendere poi la genesi dell'ideologia nazista; ma questa vicenda va al di là non solo di Nietzsche ma anche della Germania nel suo complesso.
Ritorniamo alla coppia concettuale Übermensch/Untermensch. Rosenberg, l'ideologo pressoché ufficiale del Terzo Reich, osserva che il merito di aver per prima elaborato la categoria di Untermensch spetta a Lothrop Stoddard. Chi è costui? E' un pubblicista statunitense che ha studiato in Germania e che conosce e cita Nietzsche, dal quale è largamente influenzato. In polemica contro l'"idolo" della democrazia, Stoddard celebra anche lui la "nuova nobiltà" e rende omaggio non solo a Galton e all'eugenetica - chiamata a favorire lo sviluppo di una "super-razza" (super race) così come da Zarathustra è chiamata a favorire lo sviluppo di una "super-specie" (Überart) - ma anche a Teognide e alla sua battaglia contro i matrimoni misti tra nobiltà e plebe. Come si vede, la lettura di Nietzsche ha lasciato tracce vistose persino nei dettagli. Denunciando l'ulteriore accelerazione della degenerazione moderna e democratica, Stoddard mette in guardia contro il pericolo mortale che per la civiltà rappresenta l'Under Man (ovvero l'Untermensch della traduzione tedesca), dal pubblicista statunitense esplicitamente contrapposto allo Übermensch di nietzscheana memoria, sia pur diversamente interpretato.
Questa vicenda linguistico-ideologica è la conferma per un verso della vacuità della lettura innocentista di Nietzsche, per un altro verso dell'insostenibilità della teoria che pretenda di spiegare l'ideologia nazista a partire esclusivamente da un diabolico Sonderweg tedesco. Ad elaborare una categoria-chiave del discorso ideologico nazista è un autore (Stoddard) che dialoga sì con Nietzsche ma che, al tempo stesso non solo è americano ma può anche vantare il solenne elogio di due presidenti USA, e cioè Harding e Hoover.
Una critica anticipata della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani"
Abbiamo visto che trasformare in un'innocente metafora il discorso di Nietzsche sulla schiavitù significa fare grave torto ad un autore che, sin dalla sua adolescenza, si è misurato profondamente con la storia e la politica. Proviamo ora a far intervenire il contesto storico. Ecco allora che la stessa celebrazione della schiavitù finisce col dispiegare un'insospettata efficacia critica. Essa cade nel momento in cui il colonialismo europeo trasfigura la sua espansione come un contributo decisivo alla causa della lotta contro la barbarie della schiavitù. Viene così bandita una Crociata, talvolta intesa nel senso letterale e cristiano del termine; senonché, la sua avanzata va di pari passo con l'assoggettamento della popolazione "indigena" al lavoro più o meno coatto e persino con una vera e propria recrudescenza del lavoro servile, nonché con la disgregazione e la distruzione della cultura indigena. E dunque, la celebrazione nietzscheana della schiavitù s'intreccia, paradossalmente, con la demistificazione delle reali pratiche coloniali di asservimento ed etnocidio: ""L'abolizione della schiavitù", questo presunto contributo alla "dignità dell'uomo", è in realtà l'annientamento di una stirpe profondamente diversa, mediante l'affossamento dei suoi valori e della sua felicità".
Negli ultimi decenni dell'Ottocento, Bismarck decide di agitare anche lui la parola d'ordine dell'abolizione della schiavitù nel mondo coloniale e dell'espansione della civiltà e dei principi umanitari. Ed ecco rivolgersi a suoi collaboratori in questi termini: "Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà?". Sull'onda dell'indignazione morale da essi suscitata sarebbe stato poi più agevole bandire la crociata contro l'Islam schiavista e rafforzare il ruolo internazionale della Germania. Si potrebbe commentare con Al di là del bene e del male: "Nessuno mente tanto quanto l'indignato". Non c'è dubbio che una critica della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani" non possa prescindere dalla lezione di Nietzsche. E' un fatto assai positivo che Vattimo non si lasci più incantare dalle sirene della guerra umanitaria. Forse può essere per lui l'occasione di ripensare e di rimettere in discussione la lettura innocentista di Nietzsche.
Fonte: da una nota di Maria-Cristina Serban

















La nostalgia è un sentimento fondamentalmente di assenza, ed i tedeschi dell'Est che, come me rumena, avranno vissuto in un sistema in cui forse provavano a trarre il massimo vantaggio dalle situazioni possibili e forse riuscivano a cavarsela molto più spesso di quanto lo fanno adesso, probabilmente recuperano con la memoria, col ricordo l'attuale assenza del sentimento della comunità e del cameratismo, o l'attuale assenza della solidarietà, o del cibo...
E dopo essersi arresi a nostalgie di questo tipo, magari dovranno subire (o guardare gli altri subire) il lavaggio del cervello fatto dai media dell'apparato totalitario liberale. E allora forse si ricorderanno con nostalgia anche di come la persuasione totalitaria ed il lavaggio del cervello furono uno degli elementi integranti più deboli degli Stati comunisti del '900...
Reuters cita invece un sondaggio Forsa sulla nostalgia della Ddr, e che espone anche alcuni dei motivi per i quali i tedeschi si aggrappano ai ricordi nostalgici:...
http://news.yahoo.com/s/nm
E nel 2006 sul sito della Deutsche Welle si potevano leggere commenti come questo:
"Experts point out that the population flight from eastern Germany can only be stemmed by creating job opportunities in the region."
E le affermazioni di Tiefensee di allora:
"Reports on the state of unity in past years had to acknowledge some tough issues ranging from rampant unemployment to negative demographics. Right-wing extremism is much more acute in eastern Germany than it is in the west. Despite some economic successes and a revitalized infrastructure, eastern Germany has still not caught up with the western part of the country: Wages in the eastern regions are 23 percent lower and unemployment rates are nearly twice as high. It will take 15 to 20 more years before we can speak about sustainable economic revival (in the eastern part)."
E quelle dello storico Konrad Jarausch:
"The too rapid transformation from a planned to a market economy during unification, the too high conversion rate of the currency and the too generous wage settlements have destroyed much of the productive base in the east. The challenge for the next half generation is therefore to create a new industrial base in the eastern states."
Anche questo articolo sulla "ostalgia", che era apparso su Le Monde Diplomatique nel 2004 (sempre in inglese), è assai suggestivo:
http://lists.portside.org/
Questo sempre per mettere i puntini.
Secondo Costanzo Preve, che ha visitato diversi paesi dell'Europa orientale, ed ha visto lavorare gli operai sia in Germania Ovest che in Germania Est, e non solo ha visto, ma ha anche lavorato, i sogni utopistici dell'eguaglianza e della virtù della democrazia in regime capitalista socialdemocratico sarebbero (stati) sterili e perfino grotteschi, e "la fine del comunismo storico novecentesco, ultimo fattore geopolitico di riequilibrio dei rapporti internazionali" sarebbe stata "negativa e sciagurata".
"Se vogliamo fare giochi estivi di nessuna importanza, e mi si chiede soggettivamente in che ordine "morale" e politico metto i giganteschi fenomeni novecenteschi che hanno tentato di imporre il primato della politica (organizzata in forme diversissime, dal pluralismo partitico socialdemocratico al partito monocratico di tipo comunista, fascista o populista) sulla logica autonomizzata dell’economia capitalistica pura, risponderò subito così: al primo posto metto il comunismo storico novecentesco nel suo insieme (nonostante bestialità, crimini, ecc.), poi metto il populismo terzomondista (Peròn, Nasser, ecc.), poi al terzo posto metto l'onesta socialdemocrazia (Palme, ecc., con esclusione della socialdemocrazia imperialista, interventista e bombardatrice alla D'Alema), ed al quarto ed ultimo posto metto il nazifascismo (di cui considero particolarmente imperdonabili il colonialismo razzista ed il razzismo di sterminio e quindi l'Etiopia di Mussolini del 1935 e lo Auschwitz di Hitler del 1942)." (da un articolo di Preve: "Sulle categorie di destra e di sinistra e sulla loro evoluzione storica")
Sebbene sia fallito, il comunismo ha cominciato dai bisogni della gente, non da quelli del capitale, e le sue conseguenze furono di immensa portata anche per le masse lavoratrici dei Paesi capitalistici (il welfare, il modello socialdemocratico), per i popoli colonizzati, per le stesse democrazie occidentali, sfidate dal nazifascismo e salvate dalla vittoriosa resistenza dell'Armata Rossa. Dire questo non significa dimenticare i crimini, la repressione del dissenso, la degenerazione oligarchica dei gruppi dirigenti e delle tecnocrazie.
Si potrebbe fare inoltre una riflessione sull'attuale crisi della sinistra europea, o più esattamente sulla fine del modello socialdemocratico dovuta ai fermenti politici ed economici successivi alla fine del comunismo... O persino sulla pesante sconfitta della socialdemocrazia tedesca del mese scorso...
Torno invece a Mario: io non sottovaluto affatto il fenomeno di "Ostalgie", di nostalgia della Ddr, diffuso nella ex Germania Orientale, e certamente dovrebbe essere, anzi dopo la recente disfatta elettorale lo è già, un elemento di preoccupazione, di riflessione e autocritica nella Spd, che ha governato negli ultimi 11 anni prima con i Verdi, e poi nella Grande Coalizione con i democristiani, il fatto che nella ex Ddr, la Linke, l'erede diretta del Partito Comunista, abbia più di un quarto del suffragio popolare e superi ampiamente la Spd. Certamente, il ritorno all'opposizione non può che fare bene a un partito stanco e logorato, che potrebbe essere il simbolo della crisi più generale del socialismo europeo, che nel suo insieme si è lasciato tutto trascinare dal liberismo imperante, favorito certo dalla caduta del comunismo, ma già sviluppatosi negli anni '80 nei paesi anglosassoni (Thatcher e Reagan).
Il socialismo europeo deve ripensare profondamente le ragioni della sua esistenza, e della sua storia, e recuperare le sue idealita e i suoi modelli politici (Welfare, Stato sociale, ecc.), il modello a cui riferirsi esiste, bisogna recuperarlo, e spero che gradualmente questo accadrà, a meno che non si voglia che scompaia totalmente la sinitra, salvo frange minoritarie, dall'orizzonte poltico.
Ricordo che già Willy Brandt, che io considero uno dei massimi leader politici della seconda metà del XX° secolo, era cosciente di questa involuzione, tant'è vero che sulla sua tomba a Berlino, che io ho avuto occasione di visitare, c'è scritto: "Ich habe es gesucht", "Almeno ci ho provato", che è l'ammissione di una sconfitta almeno parziale. La socialdemocrazia però deve recuperare dei modelli tuttora validi, ma abbandonati in seguito all'ondata liberista, l'ideale comunista a mio giudizio deve invece ripartire quasi da zero, non potendo certo rifarsi, se non in negativo a modelli, che sono disastrosamente crollati, si sono disfatti per consunzione in pratica, e devono essere quindi completamente ripensati, dalle fondamenta secondo me (ma io sono sempre stato un critico del comunismo, e quindi ammetto che il mio giudizio sia di parte).
Credo che molta di questa "nostalgia" abbia semplicemente queste radici, e quindi che la percentuale delle persone che nella ex Ddr rimpiangono autenticamente l'epoca comunista e vorrebbero ritornarci, non sia poi in realtà così grande, neppure maggioritaria, come dimostra il voto del resto, un quarto della popolazione suppergiù. Qui vi lascio, vi saluto e vado a dormire, perché sono stanchissimo. Un saluto a tutti e a presto!
Come mai non si discute dell'attuale economia nella ex-Ddr (prospettive e sviluppi nell'ottica dell'adesione all'economia capitalista), della maniera in cui la gente ha vissuto il divorzio burrascoso con una società che ha garantito a tutti casa, assistenza sanitaria, vacanze, un'idea di sé e della propria funzione sociale... Perché non vengono per esempio esaminati i fattori pragmatici che hanno determinato le nostalgie.
O perché non vengono commentati anche i risultati della ricerca sugli esiti sfavorevoli della vittoria del capitalismo nei paesi post-comunisti dell’Europa orientale e dell’ex-Urss pubblicati da Lancet. Quella ricerca parla di un aumento della mortalità del 13% tra il 1989 e il 2002 in quei paesi, cioè della morte di tante persone alle quali erano stati brutalmente tolti il lavoro e l'accesso agevolato ai servizi sociali.... Visualizza altro
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Nel passato l'ideologia comunista è stata spesso oggetto di diversi sondaggi realizzati nei paesi dell'Europa orientale (commissionati all'estero). Alcuni dei sondaggi hanno rivelato l'ambivalenza di molte persone rispetto alla teoria e alla pratica di quell'ideologia. Molte persone tra quelle che avevano bersagliato di critiche l'autoritarismo, la centralizzazione e le inefficienze dei sistemi comunisti, e l'idea di comunismo, ritenendo che l'economia del libero mercato fosse "essenziale al nostro sviluppo economico", quando si smise di ragionare in termini di comunismo e mercato, così carichi di implicazioni ideologiche, hanno abbandonato l'apparente consenso al nuovo corso nella sfera economica, alle politiche trasformazionali dei nuovi governi capitalisti.
Approfondendo aspetti specifici delle loro vite, molti tesero a sostenere le politiche ed i valori associati con i vecchi stati comunisti: egualitarismo diffuso, un ruolo forte del governo nell'economia ed uno scetticismo profondo circa un sistema distributivo basato più sul merito che sui bisogni. I governi comunisti avevano mirato a porre fine alle disuguaglianze ed a raggiungere la piena occupazione, e dopo il loro crollo, le diseguaglianze sono aumentate bruscamente, le restrizioni imposte agli stipendi ed alla ricchezza sono state rilassate. Alcuni anni fa le differenze di reddito erano viste dalla stragrande maggioranza delle persone negli stati dell'Europa orientale come troppo grandi. Oltre il 60% dei bulgari, degli ungheresi e dei sloveni, per esempio, la pensava così... La maggior parte delle popolazioni post-socialiste favorisce i lavori garantiti: in un sondaggio il 56% degli estoni ed il 84% dei tedeschi della ex-Ddr esprimevano questa preferenza - cioè, secondo gli intervistati, i governi dei rispettivi paesi avrebbero dovuto impegnarsi a garantire un lavoro a coloro che volevano uno.
Mi ricordo anche di un sondaggio di alcuni anni fa in cui si chiedeva alla gente di otto stati post-comunisti di postulare un "reddito giusto ed equo" per il dirigente di una grande società e per un operaio non qualificato: i rapporti medi tra questi due stipendi (il primo diviso dal secondo) erano uniformemente più piccoli di quelli negli stati capitalisti. Il differenziale di reddito postulato mediano negli stati capitalisti era più elevato di quello degli stati dell'ex-blocco comunista.
Forse è il confronto con i "Wessis" a deprimerli particolarmente.
Altra questione, ora lancet ha messo in evidenza alcuni dati statistici di per sé significativi, a questi varrebbe la pena aggiungere la considerazione di come alcuni stati si sono trasformati in protettori di criminalità e mafia accettando che la loro classe dirigente fosse formata da gangster. Io direi un fallimento su tutta la linea.