Sarebbe interessante correlare questi dati con quelli relativi alle esperienze della Thatcher in Inghilterra, piuttosto che agli effetti che ebbe sulla popolazione Argentina la crisi economica nel periodo del default.
Ed andando indietro nel tempo a cosa ha significato, in termini di milioni di morti, spogliare delle loro ricchezze continenti interi come il Sud America.
Siamo abituati a misurare gli avvenimenti storici facendo dei bilanci che rappresentano l'orrore in funzione di una contabilità fatta da milioni di morti.
Sulla base di quello classifichiamo le infamie dei vari regimi.
Ma la guerra economica, quella che si combatte tutti i giorni sugli scenari del mercato globale in termini di competitività, flessibilità e precariato, chi la misura?
Chi ne misura i danni ed i morti?
Quando c’era Baffone
La libertà non ha prezzo, ma le liberalizzazioni sì. Questo potrebbe essere, in sintesi, la morale di uno studio apparso questa settimana su The Lancet, che ha fatto discutere non poco, anche sui giornali italiani.
Un gruppo di sociologi ed economisti dell’Università di Cambridge ha infatti messo in relazione gli effetti della privatizzazione accelerata delle industrie nell’ex Unione Sovietica dal 1989 al 2002 con il tasso di mortalità, e lo ha confrontato con quanto è accaduto in altri Paesi dell’ex blocco societico che hanno però scelto una via più graduale di accesso al capitalismo.
I dati sono impressionanti e mostrano un incremento della mortalità maschile a breve termine tra i 15 e i 59 anni pari al 12,8 per cento nell’insieme dei Paesi esaminati, con però variazioni che vanno da +45 per cento nell’ex Unione Sovietica al -10 per cento della Slovenia. Sotto accusa la cosiddetta shock therapy, preconizzata da economisti cone Jeffrey Sachs, secondo i quali i Paesi economicamente arretrati non possono far altro che affidarsi il più rapidamente possibile alle leggi del mercato. Secondo gli autori dello studio, favorire gradualmente le privatizzazioni delle industrie e delle aziende, così come suggerisce la scuola detta appunto “gradualista” o istituzionalista, non inficia il risultato finale (ovvero il grado di sviluppo raggiunto dal Paese) ma risparmia vite umane (nel caso specifico, circa un milione).
In Russia, la nazione che ha privatizzato più in fretta, tra il 1991 e il 1994 si sono persi 5 anni di aspettativa di vita. Un calo praticamente mai verificatosi prima in un Paese sviluppato.
La causa sarebbe principalmente la perdita dei posti di lavoro, ai quali fa seguito la mancanza di senso sociale e di sostegno reciproco. È vero infatti che in Unione Sovietica erano le fabbriche e i luoghi di lavoro a erogare gran parte degli interventi di welfare e di prevenzione in ambito di salute ma, secondo gli esperti britannici, questo non spiega tutto. Dall’analisi, infatti, si evince un dato importante: per ogni incremento di 1 punto percentuale di popolazione appartenente a una qualsivoglia organizzazione sociale (partito, chiesa, sindacato o altro) si registra una diminuzione dello 0,27 per cento della relazione tra privatizzazione e aumento dei decessi. Quando almeno il 45 per cento della popolazione è membro di una qualche “comunità”, l’associazione tra privatizzazione, disoccupazione e aumento della mortalità scompare, anche se i servizi statali rimangono carenti. È quello che gli esperti di Cambridge chiamano “effetto capitale sociale”: una rete di supporto i cui effetti sulla salute sono consistenti, ancorché tutti da chiarire.
Non è la prima volta che l’appartenenza a un “gruppo” si rivela positiva per la salute (vi sono, per esempio, diversi studi che riguardano gli anziani e la maggiore longevità associata alla frequentazione di una chiesa o di un centro di aggregazione), ma è la prima volta che funge da vero e proprio paracadute sociale in un momento di scomparsa dello Stato come erogatore di welfare.
Ora, non è mia intenzione entrare in considerazioni politiche che esulano dal tema di questo blog, ma poiché i fattori di rischio maggiormente associati all’aumentata mortalità in Russia e Bielorussia sembrano essere l’alcolismo, la tossicodipendenza e il suicidio, lo studio dovrebbe almeno far discutere coloro che pensano che il mercato, lasciato a se stesso senza alcuna forma di regolamentazione o di paracadute sociale, possa essere la panacea di tutti i mali. Perché lo sviluppo economico “selvaggio” si paga in termini di vite umane. Mi pare una lezione tanto più attuale in questo momento di crisi economica globale: la salute, dicono chiaramente gli epidemiologi di Cambridge, passa attraverso il mantenimento di una rete di relazioni e di sostegno tra gli individui, senza la quale la disgregazione del tessuto sociale si trasforma in disadattamento individuale e generazionale e, alla fine, in anni di vita persi.
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