
In tempi in cui la politica non transita solo attraverso i media ma trova in questi degli incubatori e produttori di "movimenti", che si richiamano ai principi della libertà di stampa e di espressione, forse vale la pena approfondire un po' la questione. Tanto per non fare la figura dei fessi ed aprire un po' gli occhi.
nota di Alessandro Alfieri
Lo strumento più efficace in mano al potere vigente è quella che Adorno ha battezzato “industria culturale”, della quale il jazz rappresenta un’arma invincibile. Per Adorno il jazz è espressione di moda, e non autentica espressione artistica. Quella che viene spacciata per improvvisazione, per Adorno è costruzione attorno a modelli precostituiti rigorosi. Nell’apparente creativismo, si rivela invece la intrinseca intenzionalità “sociale” del jazz: creazione di gruppi, istituzione di costumi e linguaggi condivisi, apparentemente in opposizione al sistema ma in realtà partecipe e in sintonia con esso. Per questo, il jazz è fondamentalmente “moda”, perchè il suo significato tende (in special modo negli anni ‘60) fuori dalla stessa espressione artistica e coinvolge il comportamento, la comunicazione, la convivenza civile.
L’arte deve essere in grado di mettere in questione l’ordine vigente per Adorno, deve essere capace di criticare il reale attraverso la forza eversiva della sua forma; ebbene, tutto questo non è proprio del jazz, dato che i tempi, i ritmi, le soluzioni stilistiche sono solo varianti attorno ad uno stesso modello originario. Così facendo, il jazz non diviene reale voce di dissonanza del mondo, ma conferma dell’ordine al quale apparentemente sembra opporsi, rispondendo all’identità con altre identità.
“[…] le cosiddette improvvisazioni si riducono a perifrasi delle formule fondamentali e lo schema riappare ad ogni tratto sotto il loro velo. Anche le improvvisazioni sono in gran parte regolamentate e si ripetono sempre. Tutto quel che può succedere nel jazz si aggira entro limiti così stretti come i tagli particolari dei vestiti.”
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