mercoledì 30 settembre 2009

Cosa è il capitalismo?

Nel titolo di questo studio appare il concetto, che suona un po' pretenzioso, di «spirito del capitalismo». Che cosa si deve intendere sotto questa espressione? Nel tentativo di darne una definizione, si palesano subito talune difficoltà che sono inerenti allo scopo stesso della nostra indagine. Se si può trovare un oggetto, per cui l'impiego di quella espressione abbia un senso qualsiasi, esso può essere soltanto un'individualità storica; cioè un complesso di relazioni nella realtà storica, che noi dal punto di vista della sua importanza per la storia e per la civiltà, riuniamo in un unico concetto. Ma un tale concetto storico, poiché per il suo contenuto si riferisce ad un fenomeno importantissimo nel suo carattere individuale, non può essere definito e limitato secondo lo schema, genus proximum, differentia specifica, ma deve essere costruito a poco a poco dalle parti che lo compongono e che vanno tolte dalla realtà storica. La perfetta definizione concettuale non può perciò stare al principio ma deve esser posta alla fine dell'indagine; si paleserà perciò nel corso della trattazione e ne costituirà l'importante resultato, come debba formularsi nel miglior modo, più adeguato ai punti di vista che qui ci interessano, ciò che noi comprendiamo come «spirito del capitalismo». Tali punti di vista - di cui dovremo parlare ancora - non sono gli unici dai quali possano essere analizzati quei fenomeni storici che qui consideriamo. Altri punti di vista darebbero come resultato, in questo come in ogni fenomeno storico, aspetti diversi da quelli per noi essenziali; dal che senz'altro segue, che per «spirito del capitalismo» non si può né si deve necessariamente comprendere soltanto quel che apparirà essenziale per la nostra concezione. Ciò è inerente all'essenza stessa della formazione dei concetti storici la quale, ai fini del suo metodo, non cerca di incasellare la realtà in astratti concetti di genere, ma bensì di inserirla in concreti nessi generici di colore specificamente individuale. Se si deve dunque fermare l'oggetto, che si vuole analizzare e spiegare storicamente, non si potrà avere una definizione concettuale; ma dapprima soltanto una considerazione provvisoria di quel che si intende per spirito del capitalismo. Un tale sguardo d'insieme è infatti indispensabile per intenderci circa la materia della nostra indagine, e per raggiungere questo scopo ci atteniamo a un documento di quello «spirito» che contiene, in una purezza quasi classica, quel che per ora ci interessa, ed offre al tempo stesso il vantaggio di esser libero da ogni rapporto diretto con argomenti religiosi, di esser dunque, per il nostro tema, senza presupposti: Ricordati che il tempo è denaro; chi potrebbe guadagnare col suo lavoro dieci scellini al giorno, e va a passeggio mezza giornata, o fa il poltrone nella sua stanza, se anche spende solo sei pence per i suoi piaceri, non deve contare solo questi; oltre a questi egli ha speso, anzi buttato via, anche cinque scellini. Ricordati che il credito è denaro. Se uno lascia presso di me il suo denaro esigibile, mi regala gli interessi, o quanto io in questo tempo posso prenderne. Ciò ammonta ad una somma considerevole se un uomo ha molto e buon credito, e ne fa buon uso. Ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo. Il denaro può produrre denaro, ed i frutti possono ancora produrne e cosi via. Cinque scellini impiegati diventano sei, e di nuovo impiegati sette scellini e tre pence e cosi via finché diventano cento lire sterline. Quanto più denaro è disponibile, tanto più se ne produce nell'impiego, cosi che l'utile sale sempre più alto. Chi uccide una scrofa, uccide tutta la sua discendenza fino al millesimo maialino. Chi getta via un pezzo di cinque scellini, uccide (!) tutto quel che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire.

(Max Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, I)

martedì 29 settembre 2009

AUGURI signor PRESIDENTE


Oggi il nano festeggia il compleanno, noi gli facciamo gli auguri di incontrare al più presto questa bella signora.

Studiare economia e diritto con un "gagno di 15 anni"

Ieri mio figlio mi ha descritto quello che il suo professore di economia gli ha spiegato del perché quella materia viene trattata come "scienza". L'impressione che ho avuto è che non ha colto bene il senso del tutto. Lui è al 2° anno di un liceo che "pomposamente" si titola come "economico aziendale". Un indirizzo che è il frutto di uno dei tanti tentativi sperimentali di questa nostra beneamata scuola. Il prossimo anno oltre a diritto, economia, matematica etc. studierà anche filosofia che insieme a storia ed italiano costituiranno il trittico "umanistico" della sua formazione.
Il resto sono materie come inglese, francese,biologia ed educazione fisica.
Vedere e sentire un brasiliano che studia la costituzione italiana, le fonti del diritto e che, nello stesso tempo, accompagna il tutto con un sottofondo musicale fatto da Tupac e Mano negra mi fa una certa impressione.

Che giudizio dare della scuola pubblica italiana con un figlio adolescente che la frequenta?
Mah, sono combattuto tra un bel 4 ed un 5 (tanto per darle una speranza).
La cosa che più mi lascia perplesso in questo casino è l'assoluta mancanza di passione da parte di chi lo forma (con rarissime eccezioni). Io sono un rompicoglioni con lui. Lo seguo, vado dai professori, cerco di capire il clima della classe. Insomma mi do da fare per cogliere eventuali aspetti critici su cui intervenire.
Lo scorso anno ha studiato materie come storia ed italiano con un tizio (che quest'anno non c'è più) che in tutto l'anno gli ha fatto fare numero tre temi, spiegava storia dettando un riassunto di quello che c'era sul libro e per il resto cercava di contenere l'irruenza di 18 giovanotti.
Tracce lasciate nella testa di quei ragazzi? Zero, zero.

Quando ci sediamo a tavola e prendiamo i libri provo a suggerirgli di cercare delle connessioni tra le materie che studia. Ieri parlando di economia abbiamo fatto un po' di incroci con la storia, le innovazioni tecnologiche e ciò che questo ha sempre determinato nella società in genere.
Stessa cosa quando abbiamo affrontato i primi rudimenti di diritto, il significato di norma giuridica, i diversi rami etc.
Mi rendo conto di quanto sia difficile "appassionarlo". Questa difficoltà giustifica l'indifferenza di un insegnante alla sorte di quei ragazzi? Io penso proprio di no.

Lo scorso anno dei 18 che hanno iniziato l'anno tre hanno abbandonato. Sono scomparsi e non frequentano più nulla. Qualcuno era ripetente ed i genitori si sono arresi.
Quando vado a parlare con i suoi professori il massimo dello sforzo è quello di aprire il registro e snocciolare i voti concludendo con una delle seguenti frasi "potrebbe fare di più" oppure" deve studiare di più".
Mi è capitato anche di stare lì a sentire una tipa che mi parlava di Lucas e che alla fine si è accorta che in realtà lo aveva confuso con un altro ragazzo.

La scuola è nella merda perché nella merda siamo noi tutti, non può essere un'isola felice.Credo però che dovrebbe provare ad esserlo.
Lì al mattino non entri in una fabbrica per avvitare bulloni. C'è del materiale umano, ci sono facce, storie, cervelli. Se è così basta allora solo un gessetto ed una lavagna e tanta passione "travolgente".
Certo la Gelmini è una testa di cazzo, le scuole non hanno risorse e ti devi pagare anche la carta igienica. Ma questo che ci azzecca con la "formazione"? Cosa ti impedisce quando insegni storia (ad esempio) di narrargliela in modo che avvenimenti accaduti 2.000 anni fa abbiano per loro un senso?

C'è gente che cerca responsabilità allo sfascio nel 68. Beh, io vorrei riaverlo il 68. Oggi alleviamo una generazione di ragazzi incolti, abituati a rispondere solo a dei quiz con delle crocette ai quali è negata la possibilità di usare il loro cervello in modo dinamico e flessibile.
Nello schifo che stiamo programmando per il futuro il 68 non c'entra un beneamato cazzo. Credo, al contrario, che c'entri una sorta di ingegneria sociale (inconsapevole?) che non ha bisogno di soggetti in grado di cogliere le connessioni, di interrogarsi sul perché dei fatti. Gente che vada a collocare quello che gli viene insegnato nei rapporti tra gli individui traendone delle conseguenze e formandosi un'opinione su come quel sapere sarà domani utilizzato.
Mi chiedo se chi insegna è consapevole di tutto questo. O se il problema è solo quello di non pagare la carta igienica.
Se lo sanno molto di ciò che dovrà cambiare è nelle loro mani, indipendentemente dalla Gelmini. Se non lo hanno capito c'è poca speranza ed io proverò, nel mio piccolo, a fare supplenza.

domenica 27 settembre 2009

Le illuminate dichiarazioni dei soloni del PD

Ho letto le dichiarazioni di quelli del PD dopo le elezioni tedesche; quelle sul corriere della sera dicono:

«Noi abbiamo co­struito la nostra politica del lavoro sul fordismo, oggi superato, quella dello Sta­to sociale quando i tassi di crescita era­no molto alti e la competizione interna­zionale non era aggressiva quanto oggi, non c’era la delocalizzazione in India o Romania. Al riformismo serve una 'nuo­va frontiera'. Non perché abbia sbaglia­to. Perché il mondo è cambiato». Secondo Ranieri, non va inseguita la sinistra della sinistra, capace di racco­gliere più voti che però non la porteran­no a governare. «Il rischio è che il succes­so della Linke sia visto come l’indicazio­ne per una svolta radicale», dice Ranieri. Mentre Roberto Gualtieri, eurodeputato del Pd, avverte: «Trarre dal voto in Ger­mania lezioni per il congresso del Pd o le elezioni in Italia è esercizio da rispar­miare. La Grande coalizione è stata un ottimo governo, il consenso della Linke è legato a una questione tedesca, quella dell’Est».

Qualche osservazione:
quello che dice Fassino non è granché originale (il mondo è cambiato); lo dice da un sacco di tempo ed il prodotto della sua visione, di come il mondo sia cambiato, ha come risultato un pastrocchio insapore in termini di proposta politica. Potremmo definire quelli alla Fassino dei radical chic laici di destra.
Si contorcono su analisi astruse (la fine del fordismo) senza neanche prendere in considerazione l'ipotesi che quel fordismo è morto da noi ma vivo e vegeto da altre parti. Ma anche con la morte del fordismo che impatto ha avuto questo sul tessuto della società italiana?
Il punto di vista che non vogliono prendere in considerazione è in una semplice domanda:
"cosa, chi e quali fenomeni stanno cambiando il mondo e perché?"
Noi pensiamo che questi "fenomeni" non appartengano al pianeta papalla dove ciò che accade è dato dall'imponderabile destino delle cose.
Siamo qui sulla terra, dove gli uomini (quelli che governano l'economia ed i sistemi politici) hanno ben presente perché si va in una certa direzione piuttosto che in un'altra.
Non entriamo ora in un discorso sui massimi sistemi registriamo solo come inquietante ciò che dice Fassino e ciò che contiene quell'abbozzo di analisi.
L'altro genio (Ranieri) non vuole vedere in quel risultato una spinta alla radicalizzazione per la sinistra (mettiamoci anche loro). Per lui due partiti (verdi e linke) che insieme valgono quanto i socialdemocratici non rappresentano un segnale. A questo qui gli unici segnali che interessano sono quelli che arrivano dall'altro campo.E poi sono quegli ex comunisti di merda della Germania Est che ancora non hanno capito quanto sia bello il capitalismo. Pensa te, non lo capiscono in Germania chi sa come si comporteranno in posti più sfigati stì proletari del cazzo che si ostinano a non voler pagare il conto per lor signori.
Magari si masturba al pensiero di quanto i liberali valgono in Germania. Ci fossero da noi, sai che figo!
E pensare che di radicalità in giro se ne respira un bel po'. In Grecia ne sanno qualcosa, in Portogallo anche. Da noi semplicemente non si va a votare, si preferisce stare sui tetti dei capannoni per difendere i posti di lavoro, entrare nelle sedi della Croce Rossa per porre la questione dell'immigrazione e dei diritti umani, spargere merda in qualche ristorante di lusso per discutere di risorse negate ai poveri e fare a botte con la polizia per stanare quattro rettori di merda che discettano di "cultura" in un club chiuso al Valentino.

In questo contorcimento vediamo degli sviluppi interessanti. Loro pensano a bruciare i ponti con il passato e ad avvelenare i pozzi disprezzando il loro stesso popolo; noi di questo siamo contenti. Per ciò che ci consentirà di fare.

Consigli III

sabato 26 settembre 2009

Quello che accade nei CIE, in Italia democratica e cattolica

Il ministro Maroni oggi è stato contestato. Lui è uno di quelli che ha sulla coscienza quello che accade nei CIE.

E ci furono tempi infami in cui intellettuali rincretiniti hanno dichiarato che la vita è il sommo dei beni. Oggi sono arrivati i tempi terribili in cui ogni giorno si dimostra che la morte dà inizio al suo governo del terrore esattamente quando la vita è diventata il sommo bene; che chi preferisce vivere in ginocchio, muore in ginocchio; che nessuno può essere ucciso più facilmente di uno schiavo. Noi viventi dobbiamo imparare che non si può nemmeno vivere in ginocchio, che non si diventa immortali se si corre dietro alla vita, e che, se non si vuole più morire per nulla, si muore nonostante non si sia fatto nulla.»


venerdì 25 settembre 2009

Quel 77 sovversivo

Per chi ha vissuto come me quella stagione leggere le tante interviste di gente come Morucci o ex professori diventati ristoratori o, peggio, delatori ex assassini alla Barbone riconvertiti alla loro classe di appartenenza fa "enormemente" incazzare.
Fa incazzare perché la sensazione amara che lascia nel palato, la lettura di certe esternazioni, fotografa una realtà fatta da leader improvvisati a cui abbiamo sacrificato le nostre vite, in molti casi, o concesso una silente approvazione per le cose che decidevano a prescindere da ciò che pensava il movimento ed a dispetto di quello che accadeva nelle piazze.
E allora con chi ricostruire quella stagione se a parlare sono solo giustizialisti interessati, "pentiti" opinionisti, ex brigatisti della domenica o per sbaglio?
I morti sono silenti e "dormono sulla collina". Insieme alle tante vittime. Tanti sono da altre parti lontani.
Un giorno mi capitò di vedere in questura, sul muro, la foto segnaletica di un compagno con cui avevo condiviso le partite a pallone nel circolo che frequentavo. Aveva quel sorrisetto beffardo che ricordo durante le nostre conversazioni. Dicono sia in Nicaragua da anni. Leggende?
Ecco, i tanti non parlano perché hanno perso la voglia, oppure hanno trasferito in altre latitudini la loro irrequietezza. Chi racconterà cosa li spinse, cosa gli fece deviare dal percorso e cosa no.

Vale la pena ancora parlare di quella stagione? Io penso di si perché loro ricostruiranno un'altra storia. Certo, è difficile stare a raccontare una stagione che fece decine di morti e portò in galera migliaia di persone. perché di quello si trattò. Di un movimento di massa che agì come un corto circuito in una condotta che trasportava elettricità e tensione da anni. Che aveva sacrificato tanta gente nell'attesa messianica del sol dell'avvenire mentre gli altri si facevano le loro Gladio ed organizzavano le loro stragi.

E allora eccolo qui un pò di vissuto. Dal commento di R. al mio post precedente qualche scheggia del passato che ritengo interessante. Quanto meno per ricostruire il clima.
p.s.
Chi ha voglia si accodi e scrivi il suo vissuto.

"Si, più o meno cominciò così ...

E non c'è dubbio che Piazza Fontana sarà una pietra miliare che introdurrà - più delle prediche di qualche leaderino - nelle teste di tanti giovani il concetto di "violenza giusta" ... fino a quel momento, più che altro, le botte e pure qualche proiettile il movimento li aveva presi ... ed anche quando a prenderle erano stati i poliziotti ... Valle Giulia, Garbatella in occasione della visita di Nixon, Corso Traiano a Torino ecc. .... si era trattato di violenza di autodifesa e mai d'attacco ...

Poi le cose, più o meno dai fatti dell'aprile 1975 a Milano, sono cambiate ...

Ma credo vadano ben distinte le violenze di piazza ed il lottarmatismo vero e proprio ...

Questo, fino alla fine del 1977, era poca cosa ... le BR esistevano dal 1969 ma non avevano ecceduto in fatti di sangue ... il loro primo omicidio VOLUTO ( c'era stata nel 1974 la vicenda dell'assalto al Msi di Padova con due morti ma le stesse BR lo definirono subito "un tragico errore" e non tutti i partecipanti erano brigatisti veri e propri) è solo del 1976, con l'uccisione del giudice Coco e della sua scorta.

Ma fino alla fine del 1977 le BR (per le quali certo capitava, in una logica prepolitica da curva calcistica, che molti giovani del movimento facessero "il tifo") erano comunque considerate un "corpo estraneo" al movimento, dei "marziani" come li definì Sofri in un famoso articolo sul quotidiano "Lotta Continua" ... questo anche per la loro impostazione stalinista e comunque del tutto interna alla "tradizione comunista", impostazione alla quale il movimento era invece ideologicamente in grandissima parte estraneo ....

E gli altri gruppi armati ( a parte il caso molto specifico dei Nap che si occupavano solo del carcerario), nati più o meno tutti nel 1976, avevano fino a quel momento fatto ben poco .... e soprattutto non avevano ancora ammazzato nessuno ....

Addirittura capitò che la inattesa esplosione del movimento del 1977 convinse qualcuno a lasciar perdere - per un periodo - l'azione clandestina e a riversarsi in quel movimento.

Prima Linea, questa "ritirata strategica" e questo ritorno nel movimento di massa addirittura lo comunicò in documenti politici fatti pervenire ai giornali ...

Ma anche molti altri non lo scrissero ma lo praticarono di fatto .... fece ad esempio un certo effetto, durante i mitici scontri 12 Marzo del 1977 a Roma, vedere esponenti delle FAC di Valerio Morucci ( non erano pochi a conoscerli come tali) sfasciare a sassate le vetrine dell' Hotel Palatino di Roma (che aveva ospitato nei giorni precedenti un congresso del Msi) come degli autonomi o dei "desperados di borgata" qualsiasi ...

Ed a me capitò pure, quel giorno, di incontrare - anche se loro del tutto defilati dagli scontri e confusi tra i normali manifestanti - quasi tutti quelli che solo un anno dopo costituiranno il commando di Via Fani.

Quindi il 1977, se fu certamente l'apoteosi della violenza di piazza e di strada, non comportò immediatamente arruolamenti nel lottarmatismo ma anzi provocò addirittura momentanei ripensamenti in chi quella scelta l'aveva già fatta . E curiosità e conseguente disorientamento persino in chi comunque la scelta della lotta armata la considerava ormai irreversibile.

La feroce repressione che si scatenò contro quel movimento ( col Pci che addirittura accusava Kossiga e la DC di eccessiva "mollezza" ) cambiò nel giro di un anno tutti i termini della questione .... e dopo la fine del movimento del 1977, stretto dalla tenaglia tra la feroce repressione e la - a mio giudizio non casuale - diffusione di massa dell'eroina negli ambienti giovanili, i gruppi armati in genere e le BR in particolare faranno invece affari d'oro nel reclutamento di militanti ...

Kossiga ha riconosciuto tutto questo ed ha fatto sul tema una notevole autocritica ...

Ma altrettanto non si può dire del Pci e dei suoi eredi politici ( Rifondazione compresa) ...
"


Rispondi citando Modifica

Direi che quello che scrivi inserisce un punto interessante. Io militavo a Torino in un circolo, ricordo il dibattito ed i tanti compagni che entravano ed uscivano da formazioni "armate" o ne inventavano.
Era un momento in cui se la "sinistra" avesse voluto provare a recuperare il confronto forse le cose avrebbero preso un'altra piega. Al contrario preferirono fare questionari anonimi attraverso cui invitavano a denunciare i sovversivi.


Interessante raccontare oggi chi furono i personaggi che si inventarono quell'assurdo questionario anonimo .... erano Piero Fassino e Giuliano Ferrara .... interessante non tanto e non soltanto perchè i due, ad un giovane osservatore di oggi, possono davvero sembrare una "strana coppia" ..... ma anche perchè tutti e due ( anche se Fassino certamente di più) avevano negli anni precedenti "inciuciato" niente male con la sinistra extraparlamentare e con Lotta Continua ( fortissima a Torino) in particolare .... mentre invece quel questionario anonimo suscitò la timida riprovazione di vecchi comunisti come il sindaco Diego Novelli o il segretario della Fiom Emilio Pugno ....

Cioè, a ridosso del 1977, capitò anche questo ... che giovani funzionari del Pci, quasi tutti ex sessantottini, si schierassero in modo incredibilmente acritico in difesa della linea del compromesso storico ed a favore della ristrutturazione capitalistica ... mentre invece vecchi dirigenti del Pci, che avevano sputato sul 1968 o comunque non si erano mai fidati di quei giovani "estremisti", esprimessero invece qualche timida perplessità sulla nuova linea di alleanza con la DC e con il padronato .... inutile dire che i primi ebbero in breve il totale sopravvento ....

Era un certo "ceto politico" che sentiva finalmente odore di seggi, di soldi, di affari e di potere ... cosa che spiega abbastanza bene come poi si sia arrivati, con certi dirigenti ( compresi quelli, come Ferrara, che hanno successivamente "saltato il fosso") alla degenerata situazione della cosiddetta "sinistra" istituzionale di oggi, compresa quella recentemente ( obtorto collo) divenuta a sua volta extraparlamentare .......

Comunque, se il questionario anonimo torinese fu forse soltanto una "follia" locale ( si narra che persino Berliguer ne fosse perplesso ) non credo che il Pci di allora potesse nella sostanza comportarsi in modo assai diverso da come si comportò.

Avevano scelto non solo l'alleanza con la DC ma soprattutto si erano posti l'obiettivo di favorire la ristrutturazione capitalistica seguita alla crisi petrolifera .... e tutto sommato preferivano avere a che fare con le facilmente criminalizzabili pallottole brigatiste ( che peraltro colpirono il Pci solo 2 volte, tutte e due a Genova, e per motivi contingenti ... l'operaio Guido Rossa ucciso perchè aveva denunciato un collega brigatista ed un dirigente della Ansaldo, iscritto al Pci, "gambizzato" perchè grande fautore delle centrali nucleari) che non con un movimento di massa che invece metteva pesantemente in discussione l'egemonia del Pci nei ceti popolari .... ed in quelli giovanili in modo particolare ...

Chi invece si sarebbe potuto comportare in modo assai diverso ( come del resto suggerirà poi l'anno dopo Moro nelle "lettere dal carcere brigatista") era proprio la DC ... cioè il principale obiettivo del lottarmatismo .... ma anche il potere politico reale, sia pure un pò in crisi per gli scandali di metà anni settanta ed i conseguenti cali elettorali, di quel tempo ....

Loro sì avrebbero potuto avere interesse a dialogare con quel movimento di massa ed a evitare che poi le sue ceneri divenissero fonte di reclutamento per il lottarmatismo ... e loro avrebbero anche potuto politicamente permetterselo ....

Ma non lo fecero .... si affidarono alla repressione più bieca ed infame .... e favorirono, sul modello americano adottato nei ghetti neri, la diffusione delle droghe pesanti nei quartieri popolari delle metropoli .... i favori e le complicità a Roma con la cosiddetta banda della Magliana o a Milano con la mafia di Turatello nacquero più da questa esigenza "politica" che non da trame "complottistiche" e/o affaristiche troppo raffinate ... quelle casomai verranno dopo, a movimenti distrutti e dispersi ....

Chi invece capì tutto ma era allora troppo debole per imporsi fu Bettino Craxi ... che comunque sarà poi quello che approfitterà ampiamente della crisi successiva sia della Dc che del Pci ....

Da lui al Berluska, sia pure passando un altro decennio, il passo sarà breve .... e così arriviamo fino ai fetidi giorni nostri .... e ci arriviamo certamente anche a seguito di quelle antiche vicende e di quelle antiche scelte politiche ....


giovedì 24 settembre 2009

Le eredità del 68 e del 77

Ai tanti che si masturbano su quelle che sono le deleterie eredità del 68 prima e del 77 guerrigliero dopo, continuando a rompere il cazzo dopo 40 anni, lascio questa testimonianza.
Ci indica qual'è il lascito migliore che lasciamo a voi, che non capite un cazzo, ed a noi che viviamo di nostalgia e malinconia; la gioia di una schitarrata stirando di domenica.
p.s.
tralasciamo che ci siamo fatti un mazzo così per vedervi affogare, con noi, in questo mare di merda che ha la pretesa di essere insapore ed inodore (riuscendo pure a convincervi che è così da sempre).



"Mah, nun me ricordo!!"

mercoledì 23 settembre 2009

Brancaccio, Latouche e Roegen

Pubblico un vecchio articolo di Brancaccio dove si criticano le "farneticazioni" di Latouche e si dà una "botta" Roegen. Vedremo più avanti di fare una sintesi di questo percorso, al momento accontentatevi.


Negli ultimi anni, all'interno di molte formazioni politiche della cosiddetta sinistra radicale europea,

è prevalsa una concezione perniciosamente "multiculturalista" della teoria e della prassi politica.

Secondo questa concezione, il successo di un partito non dipenderebbe più dalla capacità di

sviluppare una ferrea dialettica tra le varie posizioni in campo e di derivare, da essa, una sintesi

superiore che possa guidare l'azione politica. Al contrario, il consenso si misurerebbe in base alla

capacità di giustapporre visioni anche contraddittorie tra loro e di lasciare che tutte sopravvivano -

ognuna depositaria di una propria verità parziale - grazie ad una sostanziale neutralizzazione dello

scontro dialettico interno. La polemica ambientalista, che si trascina ormai stancamente da anni, ha

subito anch'essa questo infausto destino. Ed è un peccato, considerato che gli ambientalisti

appartengono a quella rarissima, dialetticamente fondamentale categoria di soggetti capaci di avere,

al tempo stesso, ragione da vendere e torto marcio.

Devo avvisare che nel tentativo di superare questa contraddizione farò riferimento, in quel che

segue, ad alcuni elementi di teoria. Il che dopotutto è inevitabile: per costruire infatti la sintesi

rosso-verde di cui tanto si parla ma che tuttora sembra ben lungi dall'essere acquisita, non mi risulta

che basti citare a caso qualche passaggio apparentemente agevole del Capitale.

Gli ambientalisti hanno ragione perché sono materialisti. Essi hanno compreso, prima e meglio di

tutti, che lo sviluppo illimitato del capitale si inscrive in un orizzonte naturale finito, e che già da

tempo si avvertono i primi, devastanti segnali di impatto tra la meccanica pervasiva

dell'accumulazione capitalistica e i confini insuperabili del sistema naturale. Gli ambientalisti ci

ricordano inoltre che tali segnali sono destinati a diffondersi e ad intensificarsi. E le loro evidenze

risultano ormai talmente robuste da far giustamente dubitare della buona fede di chi avanza

obiezioni nei loro confronti.

Un problema tuttavia si pone, e riguarda il modo in cui si decide di interpretare la pressione

crescente del capitale sul vincolo delle risorse naturali. Sussistono a questo riguardo due opzioni: ci

si può soffermare sulla possibilità che questa pressione stravolga le attuali condizioni di

riproduzione dei rapporti sociali, oppure ci si può concentrare sull'eventualità che essa finisca per

compromettere le condizioni di riproduzione della stessa vita sulla Terra.

Non è un mistero che molti ambientalisti prediligano, a torto, questa seconda chiave di lettura. In

particolare, la prospettiva dell'autodistruzione del genere umano viene esaltata da una frangia

dell'ambientalismo radicale che potremmo definire "apocalittica". Il relativo successo di questa

frangia sembra direttamente proporzionale ai suoi giganteschi limiti analitici: per quanto infatti la

plausibilità di un apocalisse ambientale sia ormai un dato scientifico acquisito, appare evidente che

una tale fretta di giungere alla "fine della Storia" denoti una macroscopica carenza di strumenti per

lo studio dei processi sociali in corso. Non è un caso del resto che proprio gli "apocalittici" si

rivolgano, sia nelle loro analisi che nelle invocazioni, all'umanità presa come un tutto, anziché alle

classi e ai gruppi di interesse che la compongono e che ne costituiscono le vicende. Purtroppo

questo orientamento risulta diffuso non solo presso la generosa militanza di base, ma anche tra

giganti del calibro di Nicholas Georgescu-Roegen, sempre prodighi di esortazioni verso una non

meglio specificata "generazione presente" a tener conto degli interessi di una ancor meno definita

"generazione futura". Georgescu-Roegen fu un brillante critico della economia volgare dominante.

In alcune circostanze, come quella del "teorema di non sostituzione", egli giunse persino ad

anticipare alcuni nodi cruciali del dibattito marxista novecentesco. Ciò nonostante, bisogna

ammettere che la tipica scelta, sua e degli ambientalisti, di declinare il conflitto in chiave

intergenerazionale anziché di classe, rende i loro contributi esattamente speculari a quelli

dell'economia volgare. Il che in un certo senso è paradossale, visto che l'obiettivo dichiarato di

quest'ultima è di valorizzare l'astinenza dal consumo presente per favorire non certo il risparmio

energetico ma, al contrario, proprio l'accumulazione futura di capitale.

La difficoltà di introiettare il vecchio insegnamento di Marx ed Engels, secondo il quale la storia di

ogni società è storia di lotte di classi, spinge tuttora troppi ambientalisti verso una risibile deriva

etico-normativa, che li induce nella migliore delle ipotesi a formulare progetti di ingegneria sociale

tanto minuziosi quanto improbabili, e nella peggiore a ricercare conforto in vere e proprie fughe

all'indietro, dal mondo e dal processo storico. Si pensi ad esempio al dibattito sulla "decrescita". Su

di esso è bene chiarire che, di fronte alla ormai perenne sudditanza dei programmi delle sinistre

europee ai capricci del ciclo capitalistico, un attacco del genere all'apologia della crescita potrebbe

anche rivelarsi salutare. E questo non certo perché il legame tra crescita capitalistica e occupazione

si sia attenuato, come qualcuno erroneamente si ostina a dichiarare; quanto piuttosto perché risulta

ormai chiaro a tutti il fallimento delle strategie volte a subordinare le lotte per i diritti fondamentali,

incluso il lavoro, alle bizzarrie della congiuntura. Inoltre bisogna aggiungere che, in linea di

principio, non vi sarebbe nulla di sbagliato nel porsi l'obiettivo politico di comprimere il reddito

medio procapite a livello mondiale. Si tratterebbe anzi di una decisione assolutamente logica, se al

netto del più ottimistico sviluppo delle tecnologie risparmiatrici di risorse naturali si dovesse

comunque registrare un contrasto insanabile tra i limiti dell'ecosistema e l'espansione della

produzione e quindi dei consumi. Ovviamente, però, un obiettivo di tale portata merita di esser

preso sul serio solo se gli si affiancano adeguati strumenti d'azione. E chiunque abbia un minimo di

dimestichezza con il funzionamento di un sistema economico complesso non tarderebbe a

riconoscere nell'abbandono dell'anarchia capitalistica e nella espansione della economia pianificata

l'unica svolta in grado di trasformare lo slogan d'élite della decrescita in un credibile obiettivo di

massa.

C'è dunque lo spettro di Lenin e della Rivoluzione d'Ottobre dietro le più recenti suggestioni

dell'ambientalismo radicale? Troppo bello per esser vero. In realtà la grande maggioranza degli

ecologisti si divide tra chi si lascia sedurre da sofisticati meccanismi di incentivo e punizione fiscale

- elaborati nell'ambito dell'economia volgare al fine di bandire l'ipotesi della "proprietà pubblica"

dal dibattito politico - e chi addirittura decide di aderire alle farneticazioni di Latouche e dei suoi

epigoni sulla costituzione di enclaves di produzione e consumo eque e solidali, autonome,

periferiche e dissidenti rispetto alla "megamacchina capitalistica". Insomma, se qualcuno ancora

pensava che le fantasticherie di Proudhon e dei socialisti borghesi fossero ormai alle nostre spalle,

farà bene a ricredersi in fretta.

I pochi ambientalisti più attrezzati sul piano sociologico e politico, tuttavia, resistono con facilità a

simili, sciagurate tentazioni. Essi naturalmente non negano affatto l'eventualità dell'apocalisse

ambientale, né tantomeno si risparmiano quando si tratta di mettere sotto accusa l'apologia

imperante della crescita capitalistica. A tutto questo, però, essi ritengono indispensabile premettere

un esame dei mutamenti che il vincolo delle risorse naturali provoca sul corso della Storia,

attraverso il suo impatto sulle condizioni di riproduzione dei rapporti sociali prima ancora che della

vita in generale. Non mancano, a questo proposito, ricerche tese ad evidenziare come, già a partire

dal prossimo decennio, possa determinarsi una nuova tendenza nella evoluzione dei prezzi relativi

del sistema economico mondiale, e quindi anche nella dinamica della distribuzione del reddito e del

potere tra le varie classi sociali. Queste ricerche rivelano che, nella classifica dei "grandi ricchi" di

domani, gli innovatori in campo scientifico, tecnologico e finanziario potrebbero essere

rapidamente soppiantati dai meri proprietari di risorse naturali scarse: dalle fonti energetiche

all'acqua, passando per le sempre più rare e inaccessibili oasi incontaminate, luoghi per eccellenza

del privilegio. Tale tendenza dovrebbe tra l'altro circoscrivere l'ottimismo di chi ha recentemente

sostenuto che la pressione capitalistica sull'ambiente possa esser mitigata dallo sviluppo futuro di

produzioni "immateriali e pulite". Questo ottimismo potrebbe infatti essere al limite condiviso in

termini fisici, ma non certo in termini di valore. La ragione è che le produzioni immateriali non

pongono alcun ostacolo all'innovazione tecnologica e quindi all'abbattimento dei costi di

produzione. Al contrario, la possibilità di ridurre i costi delle merci ad elevato contenuto di risorse

naturali risulterà sempre condizionata dai vincoli fisici che tali risorse pongono alle innovazioni. La

conseguenza è che il peso economico delle produzioni immateriali è destinato a diminuire, mentre

quello delle risorse naturali, e della rendita ad esse associata, pare inesorabilmente incamminato

lungo un sentiero di crescita.

La domanda che a questo punto si pone è la seguente: chi pagherà l'incremento delle rendite

assegnate ai proprietari di risorse? I dati, a questo proposito, sono inequivocabili. Da tempo si rileva

che l'impresa capitalistica riesce a scaricare l'intero peso della rendita sul salario netto per unità di

prodotto, attraverso una pressione diretta sui prezzi e sulle condizioni di lavoro, e una pressione

indiretta sulle istituzioni per l'abbattimento della spesa sociale e la privatizzazione demaniale.

Volendo ricercare una spiegazione teorica per questo fenomeno, dovremmo constatare l'ennesimo

fallimento dell'economia volgare: questa, infatti, basandosi sul principio secondo cui viene sempre

pagato meglio il "fattore produttivo" più scarso, dà luogo al risultato, opposto ed armonico, secondo

cui l'accumulazione e la conseguente abbondanza relativa di capitale dovrebbero provocare un

accrescimento non soltanto delle rendite dei proprietari di risorse naturali ma anche dei salari dei

lavoratori. E dovremmo invece porgere ancora una volta un tributo agli schemi di derivazione

marxiana, gli unici in grado di dar conto della compressione salariale e del conseguente legame di

fatto tra sfruttamento della natura e sfruttamento del lavoro.

Ma, una volta accertata l'esistenza teorica ed empirica di questo legame, quali sono le implicazioni

politiche che se ne possono trarre? L'implicazione decisiva è che l'attore principale della

contraddizione tra crescita economica e limiti dell'ecosistema non si situa affatto alla periferia della

"megamacchina capitalistica", ma esattamente al centro della stessa. E' infatti sulla classe

lavoratrice che ricade sia lo sforzo della messa in movimento dell'accumulazione capitalistica, sia il

danno derivante dalle scarsità naturali che la stessa accumulazione produce ed amplifica. Da anni

questa contraddizione sfugge ai più, a causa del fatto che la frammentazione produttiva ha reso i

lavoratori invisibili e pressoché muti sul piano politico. Essi, tuttavia, a differenza della Natura e

delle generazioni future (mute per definizione), sono tuttora gli unici soggetti in grado di mettere in

crisi il meccanismo di sfruttamento sul quale è fondato il sistema di potere vigente.

Per il perseguimento di questo obiettivo, gli strumenti di cui i lavoratori dispongono, allo stato dei

fatti, sono ben noti: una spinta "incompatibile" sul salario per unità di prodotto e sulla quota di

disavanzo pubblico destinata alla spesa sociale. Chiunque preservi ancora un minimo di memoria

storica, dovrebbe riconoscere che una spinta del genere non può mai essere interpretata

semplicemente alla luce della pur comprensibile esigenza dei lavoratori di migliorare le loro

condizioni di vita, assolute e soprattutto relative. Quella spinta, infatti, proprio perché

potenzialmente incompatibile, si presenterà sempre, in primo luogo, come una vera e propria

dichiarazione: di esistenza politica e quindi di lotta per il potere e per la trasformazione sociale.

Gli ambientalisti sensibili all'insegnamento marxiano non avranno alcuna difficoltà nel convenire

sul fatto che una seria battaglia in difesa della natura dovrà sempre logicamente collocarsi

all'interno e in assoluta coerenza con le spinte incompatibili che la classe lavoratrice eserciterà sulle

variabili economiche del sistema. Gli altri ecologisti, che preferiranno invece prender le distanze,

magari paventando il rischio che tali spinte diano luogo nel breve periodo a un incremento dei

consumi e quindi dell'inquinamento, indubbiamente avranno vita più facile. Essi potranno infatti

placidamente continuare a pubblicare articoli allarmisti per il loro selezionatissimo pubblico, a

giocare con i loro inutili esercizi di ingegneria sociale, e qualche volta avranno persino l'opportunità

di flirtare con gli attuali centri di potere del sistema capitalistico. Il tutto senza avere alcun bisogno

di impegnarsi nell'arduo compito di far uscire l'immaginario dei lavoratori dalla gabbia capitalistica

nella quale è rinchiuso. Non credo dunque di sorprendere nessuno se, per questi ultimi ecologisti,

riesumerò la vecchia definizione di nemici. Di classe, e quindi dell'ambiente

martedì 22 settembre 2009

Scrivere del 77


Ricorrendo ad un'esemplificazione iniziale, che riteniamo però abbastanza efficace, possiamo affermare che il ricorso alla violenza nel '68 fu una risposta alla repressione statale. Si passava dal "non siam scappati più", come recitava un verso della canzone dedicata agli scontri di Valle Giulia a Roma nel marzo del '68, al ritornello "la violenza, la violenza, la violenza la rivolta,/ chi ha esitato questa volta lotterà con noi domani", che invitava i dimostranti a rispondere con la forza alle aggressioni poliziesche dei cortei. Nel '77 vi fu, invece, da parte di settori del movimento la ricerca deliberata dello scontro violento. Volendo ancora semplificare si potrebbe quasi dire che il movimento del '68 era originariamente "buono" non tanto nei suoi intenti e propositi che erano invece antisistemici, sovversivi e rivoluzionari, quanto negli strumenti che utilizzava per perseguirli: occupazioni, proteste pacifiche, non violenza, resistenza passiva agli sgomberi. Fu il contesto in cui si trovò ad operare (repressioni poliziesche, campagne diffamatorie dei giornali, strage di Milano del 12 dicembre 1969) che lo rese "cattivo", costringendolo a cercare risposte che fossero adeguate a quelle messe in atto dagli apparati repressivi legali e non dello Stato a alla minaccia delle aggressioni fasciste. Si trattava più che altro di trovare strumenti e forme che garantissero in qualche modo la difesa e il mantenimento di quanto era stato acquisito, conquistato, costruito in termini di strutture organizzative, di spazi per l'agire collettivo (sedi, giornali, piazze e luoghi di riunione e di incontro, incolumità dei compagni) che si accompagnavano alla consapevolezza che, superato l'entusiasmo per lo scoppio spontaneo della rivolta studentesca e operaia, il percorso di lotta contro lo Stato e il capitalismo avrebbe inevitabilmente previsto anche momenti di scontro cruenti. Si cominciò a praticare "un uso difensivo della violenza... E l'epoca dei servizi d'ordine... strutture organizzate per la pratica della forza sia nella difesa di spazi di movimento nelle piazze, sia nel controllo di territori nel tessuto urbano" 1. Il clima in cui nacque e si sviluppò il movimento del '77 era del tutto diverso, era già incattivito all'origine. Ogni parvenza di presunta imparzialità delle istituzioni statali nella lotta di classe era stata spazzata via dagli intrighi e dalla scoperta dei servizi segreti deviati. La repressione occulta, subdola e disgregante, condotta dai servizi segreti, si accompagnava all'introduzione di nuove e più severe leggi di polizia, volte principalmente a colpire le manifestazioni di piazza e le proteste. L'approvazione della famosa "legge Reale", sull'ordine pubblico, ne era un chiaro esempio. Essa assegnava alla polizia un potere di intervento e di repressione verso i movimenti, le manifestazioni di piazza e i compagni, che non aveva precedenti nella breve storia dell'Italia repubblicana. La stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 16 del 1978 aveva ravvisato in quella legge: "un particolare complesso di misure legislative eccezionali, se non provvisorie, per fronteggiare la presente situazione di crisi dell'ordine pubblico con particolare riguardo alla criminalità politica e parapolitica" 2.

Un evento periodizzante

La strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 appare oggi come una data periodizzante, una cesura nella storia dell' Italia repubblicana, in quanto una parte consistente "dell'apparato statale passò consapevolmente all'illegalità, si pose come potere criminale, continuando ad occupare istituzioni vitali"; Piazza Fontana "semina e ingigantisce la paura del golpe" diventa "snodo rilevantissimo della vicenda italiana, rappresenta il passaggio della repressione statale dei movimenti e delle lotte dalle "tecniche frontali, ma firmate" a quelle "indirette e occulte dei poteri di repressione, sicurezza e provocazione" 3. L'uso della forza da parte degli apparati dello Stato per reprimere l'insorgenza e l'ascesa dei movimenti non era una novità, la novità era data invece dal suo impiego non più nella sua dimensione istituzionale e legittima, "ma in quella bruta, diretta e incontrollata che trova la propria sintesi nella logica da caserma" 4 . Da allora, per dirla con Bertolt Brecht, non si potè più essere solo gentili, un'intera generazione "fu impressionata da due esperienze vitali, forti e opposte: il '68 (e il '69 operaio) da una parte, e Piazza Fontana, Pinelli, Valpreda dall 'altra. L'allegria e la morte, la luminosità e il torbido, la confidenza e la paura, la cordialità e il senso di persecuzione" 5 . Dalla strage di Piazza Fontana al 1975 altre cinque stragi si verificarono in Italia. Stragi che rivelarono l'esistenza di connivenze con apparati statali deviati, impegnati a fondo nell'opera di depistaggio, di inquinamento delle prove, di vero e proprio sabotaggio delle inchieste per evitare la scoperta della verità. Dal 1969 al 1974 i morti per fatti politici in Italia furono 92, di cui 63 a causa di violenze e atti terroristici di destra, 10 furono i caduti in scontri con le forze dell'ordine, 8 in altre circostanze, 9 attribuibili ad azioni di sinistra 6. 1706 furono gli attentati il 71,6% dei quali attribuibili all'estrema destra e il 5,8% all'estrema sinistra. Su 2359 atti di violenza censiti, 2304 erano da attribuire ad organizzazioni neofasciste e 152 a quelle di sinistra. Secondo Marco Revelli si stava delineando in Italia una situazione di "vera e propria guerra civile strisciante" 7 che preparava il passaggio alla fase seguente, quella del terrorismo, inaugurata dal rapimento del giudice Sossi e dall' uccisione di due militanti del MSI a Padova da parte delle Brigate Rosse. Dal 1974 al 1980 si contavano 362 morti e 171 feriti. 104 morti e 106 feriti erano attribuibili al terrorismo di sinistra. 1787 attentati risultavano compiuti da organizzazioni di sinistra contro i 1281 attribuiti alla destra. Una profonda differenza permaneva tuttavia tra il cosiddetto movimento e i gruppi che avevano scelto la strada della clandestinità e della lotta armata. Il movimento e gli stessi "partiti" della nuova sinistra continuavano a ritenere "che per cambiare la società italiana bisognava agire in profondità all'interno della società civile stessa, cercando di costruire un movimento di massa e di mutare la coscienza... I terroristi, al contrario, scelsero la clandestinità e l'azione violenta, ponendosi fuori dalla realtà e isolandosi... Fino a quando non fu troppo tardi essi rimasero incapaci di misurare i probabili effetti delle loro azioni, di valutame il tragico bilancio: non solo uccisero a sangue freddo, ma contribuirono grandemente alla distruzione dell'intero movimento che voleva modificare la società italiana" 8.

L'insorgenza della violenza diffusa

La crisi dei partiti della nuova sinistra, dopo le elezioni del 20 giugno 1976, liberava forze militanti e servizi d'ordine in via di scioglimento che si riversavano in nuove forme di impegno politico e sociale date dalla sviluppo dei Circoli del Proletariato Giovanile e, subito dopo, dall'esplodere del movimento del '77. Un profondo rimescolamento sociale mise in contatto -in una situazione di crisi economica, di aumento della disoccupazione e di crisi dell'idea stessa di rivoluzione anticapitalistica- gruppi di giovani disoccupati, sottoccupati, marginalizzati nelle periferie degradate delle città, con studenti universitari e medi, precari, fuori sede, operai in cassa integrazione o licenziati, freaks, militanti in crisi delle organizzazioni della nuova sinistra, femministe, appartenenti alla frastagliata area dell'autonomia operaia. I Circoli del Proletariato Giovanile difendevano il proprio "territorio" con le "ronde proletarie", occupavano edifici e case sfitte per creare luoghi di socializzazione, isole liberate in cui riunirsi, similmente a quanto era avvenuto negli anni precedenti dentro le scuole superiori più politicizzate e dentro le Università. Si riversavano poi nel centro delle città per riappropriarsi del valore d'uso delle merci, secondo il sofisticato linguaggio di allora, praticando le cosiddette "spese proletarie", l'autoriduzione dei biglietti cinematografici e teatrali, scontrandosi con la polizia per entrare gratis ai concerti. Con linguaggio immaginifico, ma efficace, Toni Negri descriveva questo nuove fenomeno sociale, così come si era manifestato al festival organizzato dalla rivista Re nudo al Parco Lambro di Milano: "il primo giorno... fu tranquillo, già al secondo ci fu l'esproprio proletario dei camion dei viveri degli organizzatori, il terzo giorno sparse squadre vennero fuori dal Parco a cercare supermercati da svaligiare -colpi d'arma da fuoco risuonarono- era apparsa la polizia"9. Spinte spontanee e soggettive, bisogni e desideri si incanalavano in parte nella gestualità della violenza diffusa. La nuova parola d'ordine del riprendiamoci la vita, cresciuta nei gruppi di autocoscienza femministi, diventava patrimonio comune di questi giovani coniugandosi con quella vecchia di alcuni anni del prendiamoci la città, "per il comunismo e la libertà", come reclamava la canzone di Lotta Continua, scritta per sorreggere la sua iniziativa politica nei primissimi anni Settanta. A differenza del '68 e della più volte ricordata ed emblematica contestazione della Scala a Milano, questa volta "non si contesta ideologicamente la ricchezza, piuttosto essa è un bene negato"10, di cui bisogna appropriarsi. L'immediata incomprensione e ripulsa che il movimento del '77 provocò nel PCI, in procinto di entrare nella maggioranza di solidarietà nazionale, la condanna senza mezzi termini e con parole pesanti di tutto il movimento da parte di quello che fino a pochi mesi prima era stato il maggiore partito di opposizione, determinarono una situazione di incomprensione e di incomunicabilità profonda tra i giovani settantasettini, i partiti e le istituzioni. Sentendosi emarginati lanciarono la sfida a chi li voleva emarginare. Molti di questi soggetti svilupparono un atteggiamento molto aggressivo nelle loro espressioni politiche. "La democrazia era considerata impotente e al tempo stesso segnata da tentazioni repressive e totalitarie. L'ipotesi armata diventava se non altro un'ipotesi accettata all'interno di movimenti certo più vasti e compositi e sembrava assumere una capacità neutralizzante (la teoria dei "compagni che sbagliano") anche nei confronti di forze e posizioni da essa molto lontane"11 . Il ricorso sistematico alla violenza fu teorizzato da componenti significative del movimento. Lo scontro con la poilizia divenne da parte di alcune componenti un modo di stare in piazza e di manifestare. Non si trattava più di difendersi dalle cariche e dalle aggressioni, ma di attaccare le forze dell'ordine, di colpire determinati obiettivo, sedi, edifici. Una simile esperienza finì coll'avvitarsi su se stessa in un turbinio di azioni che riducevano sovente il dibattito alla valutazione se era stato più o meno opportumo lanciare bottiglie molotov, assalire questo o quel covo fascista, se aveva cominciato prima la polizia o gruppi di autonomi sfuggiti al controllo del servizio d'ordine del movimento. Finivano sovente col prevalere posizioni che si attestavano su affermazioni di principio fra chi era per la violenza e chi diceva che essa era da rifiutarsi sempre come metodo di lotta politica. Quasi mai si riuscì ad affrontare il problema della violenza nei termini di una disamina storico-politica che prendesse in considerazioni categorie quali la sua inutilità, dannosità o necessità a secondo dei contesti e delle circostanze.

La violenza dentro il movimento

I contrasti di natura politica e di prospettiva dentro il movimento erano vivacissimi, sfociavano in pesanti polemiche verbali, che a volte degeneravano in veri e propri atti di violenza contro la presidenza o contro chi interveniva in assemblea. il movimento più volte dimostrò di non essere in grado di garantire la democrazia interna, il rispetto della pluralità delle posizioni e l'unità d'azione nelle manifestazioni pubbliche. Le divergenze d'analisi e d'intenti risultarono spesso inconciliabili, provocando tensioni interne che finirono col demoralizzare la parte meno politicizzata degli aderenti. Una prima scadenza nazionale metteva in luce le differenziazioni interne e l'incapacità di convivere pacificamente con esse. Il 26 e il 27 febbraio 1977 si teneva a Roma la riunione del coordinamento nazionale degli studenti universitari. I convenuti erano numerosi, l'aula di duemila posti era stipatissima e altri, fuori, premevano per entrare. L'assemblea assumeva a tratti l'aspetto di una bolgia infernale, centinaia di persone si erano iscritte a parlare, gli interventi si susseguivano tra urla, schiamazzi, cori da stadio, mentre chi era al microfono si sgolava per sormontare i fischi, gli slogan, gli applausi. Non chiara era la distinzione tra chi era delegato e rappresentava quindi ufficialmente le varie realtà locali del movimento e chi vi partecipava a titolo personale ma con eguale diritto di voto. In questo contesto che a tratti rasentava la vera e propria rissa, le femministe e gli indiani metropolitani abbandonavano l'assemblea rifiutando "l'allucinante clima di violenza e prevaricazione creatosi" , che non consentiva di "esprimere i contenuti del movimento stesso"12. Quando tentarono di ritornare nell'aula dove era in corso l'assemblea un robusto servizio d'ordine glielo impedì. Agli indiani metropolitani non restò che gridare "via, via la falsa autonomia". Alla fine veniva approvata una mozione messa insieme da quelli che erano rimasti nell'assemblea ufficiale, circa cinquecento, che non tutte le delegazioni riconoscevano come rappresentativa del movimento. Nella mozione si affermava13 il carattere "proletario del movimento", e si rivendicava, tra le altre cose, "1 'antifascismo militante", si richiedeva la liberazione dei compagni arrestati e "di tutti i militanti comunisti, di tutti i combattenti rivoluzionari prigionieri del nemico di classe", si respingeva infine ogni tentativo di dividere il movimento "tra una parte violenta e intimidatrice" e una parte disponibile al confronto e alla mediazione. In un clima più cupo, a causa della repressione in corso, si svolgeva a Bologna il 29 e 30 aprile e il 1° maggio il secondo coordinamento nazionale. Esso si teneva dopo gli scontri che si erano verificati a Bologna come reazione all'assassinio di Francesco Lorusso l'11 marzo 1977 e quelli di Roma del giorno successivo. Qui, in occasione della manifestazione nazionale del movimento, si verificarono nel corso dell'intero pomeriggio diffusi episodi di guerriglia urbana. Gruppi di dimostranti si staccavano all'improvviso dal grosso del corteo e colpivano con molotov, spranghe e armi da fuoco vari obiettivi: negozi, vetrine, auto in sosta il comando dei carabinieri a Piazza del Popolo, la sede del quotidiano della DC Il popolo a Piazza Navona, l'assalto di un armeria a Ponte Sisto. Compiute le azioni i gruppi di guerriglieri urbani rientravano nel corteo scatenando in questo modo, contro tutti i partecipanti, la reazione della polizia. "Il corteo - commentava in seguito il giornale 'dentro il movimento' Rosso - era determinato a invadere e occupare con una certa presenza militare il centro cittadino... Il corteo ha portato a termine il suo percorso realizzando via via i suoi obiettivi"14. A Bologna, al termine di un lungo e tortuoso dibattito, vennero messe in votazione due mozioni contrapposte15. La prima, quella di maggioranza (60 % dei voti) affermava, fin dalle prime battute, che occorreva evitare due alternative, entrambe fallimentari, prospettate dentro il movimento: quella di chi proponeva una radicalizzazione verticale dello scontro con l'apparato militare dello Stato e quella di chi voleva ritagliarsi uno spazio politico dentro le istituzioni del movimento operaio. Il movimento, mettendo in crisi i progetti di normalizzazione poilitica e sociale, trasformando le pratiche di vita, poteva produrre "comportamenti individuali e collettivi eversivi, /era/ una componente dell'opposizione di classe" al compromesso storico. Difendersi dalla repressione, mediante "l'autodifesa di massa" non era un fatto marginale, né una cosa da demandare agli specialisti dei vari servizi d'ordine più o meno in disuso. Consapevole che altri momenti di scontro con l'apparato militare statale ci sarebbero stati, nel documento si affermava che il problema "non è di sparare meglio o di più sulla polizia, ma che non si può neanche far finta che il problema non esista, dietro appelli generici e opportunistici... Dobbiamo potere essere noi a decidere i tempi dell'attacco in territorio nemico... Il movimento non fa scomuniche e non accetta la criminalizzazione di nessuna sua componente... ma nessuno deve permettersi di andare contro le decisioni e la volontà collettiva delle assemblee". La seconda mozione, quella di minoranza col 40% dei voti, segnalava le potenzialità del movimento ma anche la sua debolezza programmatica e organizzativa. "Oggi la DC porta a fondo l'attacco reazionario contro il movimento e le stesse sinistre astensioniste, proprio mentre il PCI è disposto a sacrificare addirittura alcune delle fondamentali libertà democratiche pur di eliminare i movimenti di opposizione... D'altra parte il movimento mentre rivendica il diritto a manifestare... e ribadisce la legittimità dell' autodifesa di massa, afferma che non accetta in nessun modo la logica delle azioni armate minoritarie, che, oltre a prevaricare la democrazia e l'autonomia del movimento, lo indeboliscono, facilitando le manovre della DC, avvallate dal PCI, tese a stroncarlo nella repressione più violenta". Per "punirli" - perchè in un volantino e sui loro giornali PdUP, Avanguardia Operaia e Movimento Lavoratori per il Socialismo avevano criticato duramente il comportamento e le azioni degli autonomi - gli autonomi romani, dopo la conferenza di Bologna, si riunivano in assemblea e li espellevano dal movimento. Così, ironicamente, commentava l'episodio Il Manifesto: "L'autonomia si è riunita da sola, cacciando tutti quelli che non sono d'accordo e combattono la sua pratica irresponsabile, espellendo i giornalisti, da sé dibattendo, da sé votandosi"16. Colpì molto all'epoca la foto scattata a Milano il 14 maggio 1977 che divenne per i mass-media il modo simbolico e efficace di rappresentare l'aspetto tragico del '77 collegandolo alla filosolia della morte e della P38. Quel giorno a Milano era in corso una manifestazione degli studenti. Un gruppo si staccò dal corteo e armi in pugno sparò sulla polizia, un agente, Antonio Custrà, fu colpito a morte. Fu immortalata da un fotografo la figura di un dimostrante in passamontagna, solo, in mezzo alla strada, con le gambe divaricate e le braccia tese ad impugnare con ambo le mani una P38 puntata verso la polizia. Il commento che ne fece Umberto Eco su L'Espresso del 29 maggio, coglieva a fondo una differenza sostanziale tra l'immaginario che attribuiamo ai movimenti collettivi, di massa, rivoluzionari, e quell'azione: "Quella foto non assomiglia a nessuna delle immagini in cui si era emblematizzata... l'idea di rivoluzione. Mancava l'elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell'eroe individuale... Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative." Dopo l'estate la situazione cominciava a precipitare: il convegno settembrino bolognese sulla repressione rappresentava l'ultimo canto del cigno di una tumultuosa primavera e la fiammata del "creativismo". Il movimento era ormai in via di dissoluzione. Il convegno aveva definitivamente dimostrato l'impossibilità di conciliare tra loro pratiche, bisogni, desideri, aspirazioni e sentire diversi. Ciò che vi sopravviveva era solo più quello che Rosso chiamava il "Movimento proletario dell 'autonomia". Logica conclusione, da parte loro, di un percorso che aveva alla fine comportato anche l'espulsione dell 'anima lottacontinuista, definita "specie di parassiti" che stanno "dentro il movimento perchè non saprebbe dove stare altrove"17. Il rapimento di Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse, avvenuto a Roma il 16 marzo 1978, segnava la fine di un periodo e ne apriva un altro: "il movimento era come un fantasma, assente, ripiegato su sé stesso, rintanato nei suoi ghetti; la scena adesso era occupata dallo stillicidio di azioni armate clandestine che si facevano concorrenza, La vita del movimento era finita, ma per i compagni non era finita, non è che potevano mettersi da parte e dire aspettiamo, stiamo a vedere, perchè per la repressione tutti erano coinvolti, non si facevano troppe distinzioni"18. La fine del movimento, coincideva con la comparsa massiccia dell' eroina sul mercato della droga (dai diecimila drogati del 1976 si passava ai 60-70 mila del 1978 19) e col passaggio di alcuni ex settantasettini alle formazioni armate clandestine, che conobbero allora una fase di relativa espansione. Scelte opposte ma dettate dalla stessa disperazione. Dopo aver vissuto un periodo esaltante, dopo aver provato a cambiare il mondo e la vita, difficile era accettare di tornare a vivere in una società che si era rifiutata perché mediocre, ipocrita, falsa e violenta.

Diego Giachetti

Note:

1 M. Revelli, "Movimenti sociali e spazio politico", in Storia dell'Italia repubblicana, vol. 2, tomo 2, Torino, Einaudi, 1995, pp. 472-473. Up

2 Citazione da G. Galli, Storia del partito armato 1968-1982, Rizzoli, Milano, 1986, p. 144. Up

3 Le citazioni sono rispettivamente di M. Revelli, Le due destre, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 22-23 e E. Santarelli, Storia critica della repubblica, Feltrinelli, Milano, 1996, p.188. Anche G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell'innocenza perduta (Feltrinelli, Milano, 1993) e G. De Paolo e A. Giannuli nell'introduzione a La strage di Stato.Vent'anni dopo (Ed Associate, Roma, 1989) giungono alle stesse conclusioni. Up

4 M. Revelli, "Movimenti sociali e spazio politico", cit., p. 467. Up

5 A. Sofri, Memoria, Palermo, Sellerio, 1990, p. 181. Up

6 Per questi dati e quelli seguenti cfr. M. Galleni, (acuradi) Rapporto sul terrorismo.Le stragi, gli agguati i sequestri, le sigle 1969-1980, Milano, 1981, pp. 51-84-89. Up

7 M.Revelli, "Movimenti...", cit., p. 473. Up

8 P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989, p. 488. Up

9 T. Negri, Pipe line, Einaudi, Torino, 1983, p. 166. Up

10 F. Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto, Rubbettino, Sovaria Mannelli (CZ), 1993, p. 817. Up

11 A. Bolaffi, P. Franchi, "La grande metafora del terrorismo", Rinascita, n. 4, 1981. Up

12 Cfr. rispettivamente "Dichiarazione di guerra degli indiani metropolitani" e "Le femministe si dissociano dall'assemblea nazionale", entrambi in I non garantiti, Savelli, Roma, 1977, pp.189 e 194. Up

13 Cfr. "Mozione 'di maggioranza"', in I non garantiti, cit., pp. 195-196. Up

14 Rosso, n. 17, 18 marzo 1977. Up

15 Ci riferiamo ai testi integrali pubblicati sul Quotidiano dei Lavoratori del 3 maggio 1977. Una sintesi di entrambi è riportata in appendice al libro I non garantiti, cit. Up

16 Citato da F. Ottaviano, op.cit., p. 853. Up

17 Ivi, p. 871. Up

18 N. Balestrini, Gli invisibili, Bompiani, Milano, 1987, pp. 26-27. Up

19 Cfr. N. Balestrini, P. Moroni, L'orda d'oro, Sugarco, Milano, 1988, p. 385. Up

Tratto da "Sul '77" - Per il Sessantotto n° 11-12/97, anno VII

Un pompino è cannibalismo?

Ho un cugino che vive(va) o meglio abita(va) a l'aquila, è impertinente si occupa di musica e fa (faceva?) l'avvocato.
Quest'ultima cosa lo spinge a porre una questione alle gerarchie vaticane:

DOMANDA
Se per la Chiesa la pillola del giorno dopo è già aborto, mi sorge un dubbio... la sega è omicidio premeditato? Ma soprattutto, il pompino è cannibalismo?


Aspettiamo le risposte.

lunedì 21 settembre 2009

Morire da parà

In giro per il web un mix delle voci che mi rappresentano sulla questione dell'Afghanistan

1- Questi "ragazzi" sanno quello che fanno: non sono coglioni come il giornalismo italiano pretende noi siamo.
Sanno che là, fuori dal compuond, ogni giorno li aspetta l'ostilità di migliaia di afgani.
Sanno che un ingorgo in centro può essere un problema molto serio.
Sanno che in otto anni gli afgani hanno assaggiato una versione narcotica, prevaricatrice e bombarola della democrazia.
Sanno della pagliacciata della ricostruzione e quanto costa costruire un anche un piccolo ambulatorio se prima devi setacciare la sabbia palmo a palmo in cerca di armi.
Sanno che tanti neopoliziotti se non sono ricattabili dalla fame si danno alla fuga con addestramento ed armi NATO.
Questi "ragazzi", soprattutto, conoscono molto bene il motivo per cui hanno chiesto di servire la Patria: sono i 144 euro di diaria; i più giovani per farsi la cabrio, i più vecchi per il mutuo.
_________________
http://sacrabolt.altervista.org


2-A commento di questo post http://www.dongiorgio.it/pagine.php?id=1818&nome=prima
Mah, indubbiamente quando c’è in qualche modo di mezzo la religione, tutto viene un pò falsato e reso irrazionale ....

Così come quando la si butta sull’ "etica" e non su una corretta analisi marxista, scientifica, "di classe" come si diceva una volta.

E’ vero, i parà non sono "mercenari" nel senso stretto del termine, in quanto "lavorano" per un solo paese e non si offrono, come appunto i "mercenari" classici, al miglior offerente.

Ma, antiretorica per antiretorica, i parà non sono nemmeno i poliziotti di Valle Giulia di cui parlava Pasolini o gli alpini italiani morti sul Don di una famosa canzone degli Stormy Six.

Sono, come amano definirsi anche loro, dei "professionisti" della guerra.

E sono in larghissima parte fascisti ... è certamente antipatico dirlo oggi ma sul profilo facebook di uno dei morti di Kabul c’erano scritte cose tipo "ringrazio Dio d’avermi fatto nascere fascista" e puttanate simili ... che ricordano la bandiera di Salò affissa sui muri della caserma di Nassirya che fu fotografata dopo l’attentato tra le macerie ....

E poi, il prete in questione tesse l’elogio della moglie di Gino Strada ed in generale dell’intervento umanitario di Emergency, mica dei talebani ....

Ripeto, quando c’è di mezzo la religione e/o l’etica ( e vale per i talebani ma anche per certo pacifismo cattolico come per certe logiche giustizialiste e "girotondine") si rischia sempre di deragliare rispetto alla razionalità e alla politica ....

Ed è senz’altro politicamente più giusto e produttivo dire - senza alcuna simpatia per i talebani - che i parà uccisi a Kabul sono prima di tutto vittime di una guerra ingiusta e di chi li ha mandati a combatterla, cioè i governi.

Piuttosto che abbandonarsi a battute stupide ... tipo il "talebani 6 parà zero" comparso su facebook e su qualche nodo locale di indymedia ..... o le imprecise disquisizioni di questo prete sui "mercenari" ....

Rimane il fatto che comunque questo esercito di "professionisti" - e poi in fondo i parà lo sono sempre stati pure quando l’esercito era di leva - è innegabilmente un coacervo del peggior fascismo ....


E questo è preoccupante non solo per l’utilizzo che ne viene fatto in guerre lontane .... ormai i parà in tuta mimetica la destra li ha sparsi pure per le strade delle nostre città ....

K.

http://bellaciao.org/it/spip.php?article24893#forum18802



3-sassicaiamolotov 18 Settembre 2009 at 17:41

@Italiano: contrariamente a quanto volgarmente viene lasciato intendere dai nostri “signori della guerra” in salsa amatriciana a sinistra nessuno è contrario al partire armati ed intraprendere lotte di liberazione, anche guerre se necessario, per liberare un popolo dalla schiavitù e dall’oppressione. Altrimenti Che Guevara lo avremmo lasciato alla destra; però vedi, caro italiano, il punto è che andare in casa di altri pensando col proprio metro di valori a ristabilire un “ordine” quando questo ordine non risponde minimamente al desiderio ed all’aspettativa del popolo su cui siamo piombati armati di tutto punto, col solo risultato di aumentarne il massacro di civili e di dare la (giusta) impressione di essere soltanto altri oppressori in cerca di risorse da sfruttare, ebbene questo si chiama TERRORISMO.
Perchè se credi alla palla dell’esercito andato in Afghanistan a portare pace, ordine e democrazia per prima cosa vuol dire che non hai la più pallida idea di cosa sia l’Afghanistan e seconda cosa che la tua unica fonte di informazione sono le veline governative.
Io non ho nessuna condivisione di valori con chi approva questa guerra mascherata con ignobile ipocrisia dal termine “missione di pace”.
Nessuna.
Amo la mia terra, amo la mia famiglia, amo il mio paese.
Ma la mia famiglia non sarà MAI la famiglia ipocrita ed assassina che manda a morire i suoi figli più vulnerabili (tutti del sud i 6 morti, ma guarda un pò) e che li fa crepare di uranio impoverito nell’indifferenza generale. Questa non è la mia famiglia.
E non è la mia Patria quella che accetta che un bavoso mafioso tra una mignotta e l’altra mandi a morire dei ragazzi imbevuti di slogan e di retorica patriottarda al solo fine di fare la guardia a due bidoni di benzina, come in Iraq. O che si accoda non ad uno stato ma alle aziende di Dick Cheney per andare in guerra mentre qui in Italia si faticano a trovare risorse per gli ammortizzatori sociali e si smantella tutto il sistema educativo.
Quella patria se la possono ficcare su per il culo.
E la mia terra non è quella di chi con una politica assassina permette che i rifiuti vengano palleggiati tra le mani di affaristi e criminali, per poi ritrovarci con bidoni radioattivi sui fondali marini e con popolazioni con percentuali di morti di tumore da guerra civile.

La mia famiglia ha rispetto della terra su cui vive, ha un senso di comunità con gli altri nuclei familiari perchè il lavoro ci unisce per creare il benessere di tutti, non quello di pochi e la disperazione di non arrivare a fine mese di troppi, la mia PATRIA lavora con la diplomazia e con l’amore per il prossimo per la pace tra i popoli, la mia Patria non fa in tv servizi agiografici su dittatori arrivati dal bergamasco ad opprimere le libertà come in Honduras, la mia Patria non sbatte fuori o manda a morire donne, anziani e bambini che scappano da orrori che noi da qui non possiamo neanche immaginare o obbligano dei medici a fare la spia in barba all’etica più nobile che esista solo perchè dei razzisti xenofobi che insultano quotidianamente la bandiera italiana tengono per le palle un mafioso arrapato.

E’ questa la tua PATRIA, è questa la tua famiglia? E’ questa la tua terra?

Io sto lavorando da 30 anni e mi sono rotto la schiena per questo paese, vedete di non tirare troppo la corda perchè a posare gli attrezzi da lavoro e prendere le armi in mano per una guerra di Liberazione in nome della Patria della Famiglia e del Paese è un’ipotesi alla quale sembra abbiate tutte le intenzioni di volerci costringere.



Per chiudere una considerazione presa da un forum in cui si discute sull'uso della violenza e del pacifismo

Maria-Cristina Serban
I tempi di Gandhi erano diversi, un'altra era della globalizzazione. Il commercio (trade), la terza rotaia della politica americana, è oggi comunemente accettato, spesso senza sfida, come se fosse una divinit... Visualizza altroà da propiziare a tutti i costi - anche se significa sacrificare lavori, famiglie, case, città o ecologie intere. Tanta gente scommette sul capitalismo moderno, malgrado i guadagni diminuiti, consolandosi per le guerre che offrono “la risposta” (quelli che le oppongono sono quasi-inesistenti). La risposta non violenta mi pare sia un anacronismo nella società odierna dominata dalla violenza. Cosa rende Gandhi rilevante oggi?... Perché i sionisti non adottano i metodi azzardosi di Gandhi? E potrebbe la non violenza predicata con acume da Gandhi essere usata nella lotta al terrorismo / guerra per il capitale di Obama? Perché l'impiego tattico di Obama nella sua lotta al terrorismo / guerra per il capitale non è quello di Gandhi?