lunedì 7 settembre 2009

La partecipazione agli utili delle aziende

Il compagno Franco Debenedetti (fratello del Carlo, acerrimo nemico del Berlusconi, potenziale tessera numero 0 del PD e distruttore di posti di lavoro) in un articolo apparso sul Sole 24 ore ci racconta la sua contrarietà al tema che riguarda la partecipazione agli utili da parte delle maestranze.

Lo fa con una serie di argomenti che sono interessanti e che vale la pena analizzare per capire cosa si gioca sulla pelle delle persone.
Per sgomberare il campo da qualsiasi equivoco ritengo questa questione il classico specchio per le allodole, messo su come ultimo tentativo di conciliare e ridare un minimo di dignità ad una funzione sindacale di tipo concertativo, contro una realtà che rischia di andare avanti per i fatti suoi (conflitto ingovernabile). Lo ritengo, come strumento, irrilevante ed inefficace nell'ambito della contrattazione e speculare ad una visione "corporativa", su scala aziendale, in cui al posto di coniugare gli interessi dello stato con l'uso dello "strumento" lavoro e produzione subordinandovi quelli individuali/di classe, lo si coniuga con gli interessi dell'azienda in cui l'interesse dell'individuo a veder riconosciuto un salario "adeguato" è legato al risultato ultimo dato dal buon uso dello "strumento" lavoro che realizza l'utile aziendale.
Vediamo per sommi capi quelli che sono i punti principali delle obiezioni del Debenedetti:

1-Perché un incentivo sia efficiente, deve essere percepibile la relazione tra impegno richiesto e risultato raggiunto: la produttività deve essere riconosciuta il più vicino possibile a dove essa è influenzata dal comportamento individuale. Invece l'utile aziendale, l'ultima cifra in basso a destra del bilancio, è il risultato d'innumerevoli fatti su cui il lavoratore non ha nessuna influenza: fatti sia interni - politiche di prodotto, di prezzo, d'investimenti produttivi o commerciali, di bilancio - sia esterni all'azienda - efficienza dei servizi costo del danaro, regime fiscale, eccetera.
2-Riduce la rigidità del mercato del lavoro? Al contrario è probabile che l'aumenti: cambiamento di prodotti o mercati, innovazioni tecnologiche, delocalizzazioni, saranno in generale ostacolati da quella parte di lavoratori che si riterrà svantaggiata da simili iniziative, anche se esse promettono un aumento dell'utile aziendale.
3-Favorisce gli investimenti produttivi? Se si trattasse di pura contabilità, agli azionisti non farebbe differenza se gli incentivi vengono pagati prima o dopo la determinazione dell'utile, e cioè se essi sono maggior costo di produzione o un minor utile aziendale. Ma visto che gli incentivi "pagati" con l'utile hanno un effetto minore o addirittura contrario sulla produttività, essi preferiranno investire in aziende che non adotteranno la compartecipazione agli utili: queste dovranno sopportare un maggior costo per trovare il capitale con cui finanziare i propri investimenti.

E' chiaro che l'obiettivo del nostro è quello di difendere una visione (sua) che vede nella produttività e nel suo aumento la leva con cui migliorare l'efficienza del sistema ed a cui subordinare la parte variabile del salario.

Alcune delle questioni poste dal Debenedetti sono, però, argomenti che possono essere usati al contrario per quanto riguarda la produttività.
In fondo che possibilità hanno i lavoratori di incidere su quelle che sono le scelte e le politiche di un azienda in tema di : marketing mix, processi aziendali, innovazione, efficienza del sistema paese nel suo insieme, crisi finanziarie e no etc. etc.
Io direi nessuna. Poi, a che tipo di produttività pensa il nostro?
Se uno si prende un qualsiasi libro di Davenport in cui si tratta di reenginering e di processi aziendali, si può leggere come i cambiamenti che rendono le aziende più funzionali a quell'obiettivo viaggiano su due binari:
a- un ridisegno delle attività aziendali in un ottica di tagli
b- investimenti massicci in termini di innovazione senza i quali è impossibile realizzare quegli obiettivi.

Questo se parliamo di settori in cui tutto ciò ha un senso; non, per capirci ,di servizi (ad esempio) in cui la produttività è data solo da quella che in gergo si definisce curva d'esperienza del lavoratore (in soldoni solo dalla sua abilità e dalla sua destrezza-).
La questione che traspare parlando di salario è che, in realtà, un lavoratore non ha alcun controllo sui fenomeni che impattano sul suo lavoro. E' estraneo alle scelte di fondo sia per quanto riguarda l'ambiente di riferimento (l'azienda) che quello esterno (mondo/istituzioni).
Se non c'è controllo e possesso di quelli che sono i mezzi di produzione, se manca una visione su quelli che sono gli interessi di classe e una rappresentanza che li interpreti e se ne faccia carico la questione della partecipazione agli utili e quella della produttività rimangono degli esercizi dialettici che nei fatti incidono nulla sul salario.
Porre al centro il salario significa porre la questione del conflitto sociale e dei suoi obiettivi.

Il tema è svolto così perché questo è il fronte "ideologico" su cui si confrontano spezzoni del potere economico e politico. C'è una visione "liberista" in termini di uso e collocazione senza vincoli di alcun tipo di quelli che sono i fattori di produzione (compresi gli uomini che producono), dell'uso della leva del comando sull'organizzazione all'interno di quella che è la gerarchia aziendale ed in funzione degli interessi degli azionisti (padroni). Questa visione, in ragione dei tempi e delle contingenze, si trova contro dialetticamente chi pensa che in qualche modo bisogna identificare uno "sfogatoio" che possa anche essere usato meglio "ideologicamente" per spiegare fino in fondo quelle che sono le ragioni del capitale. Cosa c'è di meglio di un tavolo in cui ci si confronta ponendo al centro "la torta da spartire".?Senza però entrare nel dettaglio di come questa è stata cucinata e del perché nessuno in tempi di crisi, fuori da quella stanza, se la mangia?

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